Matdid: Materiale didattico di italiano per stranieri aggiornato ogni 15 giorni.
A cura di Roberto Tartaglione e Giulia Grassi

 
   

Roberto Tartaglione

 
I TEDESCHI IN SICILIA
 
 Ipotesi riguardo alle influenze della lirica tedesca medievale sulla nascita della Scuola Poetica Siciliana
In MatDid, su italiani e tedeschi si veda: Il paese dei limoni

 
 

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Attorno a Federico II roteava una cerchia aristocratica fatta di nobiltà germanica, italica e araba alla quale faceva riscontro una serie di potenzialità linguistiche che a corte trovavano spazio.
Non a caso dell'Imperatore stesso ci restano alcune poesie in siciliano, un'opera in latino e alcune lettere in arabo; non è poi inverosimile ritenere che conoscesse il francese e il provenzale oltre che naturalmente la sua lingua madre, il tedesco.
Questa eterogeneità culturale della corte rende quindi complicata la ricerca delle componenti che possono aver influenzato la nascita della poesia siciliana. Certo, l'elemento arabo è stato fondamentale per quel che riguarda gli studi filosofici e matematici; la cultura letteraria latina è presente specialmente nella produzione cancelleresca; trovatori e trovieri provenzali e francesi, poi, sono certo stati lo stimolo principale per la creazione della lirica nella nuova lingua (basti pensare che il Canzoniere Vaticano Latino 3793 si apre con una canzone di Giacomo da Lentini, Madonna dir vo voglio, che è una traduzione di A vos, midont
ç, voill retrair' en cantan di Folchetto da Marsiglia). E se è legittimo discutere sui modi in cui questa tradizione transalpina sia penetrata fino in bassa Italia (giacché Federico II sembra non aver mai nutrito grande simpatia per i poeti provenzali e francesi), è certo comunque che la lirica provenzale penetrasse nella corte federiciana da ogni parte.
Nonostante quindi la prevalenza dell'elemento provenzale nella poesia delle origini, viene da domandarsi se non ci siano state altre fonti di ispirazione per l'iniziativa della Scuola Poetica Siciliana che, nata e voluta dall'imperatore stesso, si pone su un piano culturale completamente diverso dalla poesia d'amore transalpina e fa parte integrante della nuova idea di Stato centralista sognato da Federico.
E se Federico era tedesco, e suo padre aveva perfino poetato in tedesco, non è illogico pensare che anche la poesia in mittelhochdeutsch dei Minnesänger possa aver avuto un suo ruolo nella nascita della lirica siciliana.
 
    
 

Indubbiamente, nel medioevo, fra le genti di lingua neolatina l'immagine dei tedeschi non godeva di buona reputazione: questi sentimenti ostili (magari non più di orrore come ai tempi dei Longobardi, ma comunque di malcelato disprezzo) derivavano dal fatto che quei popoli di lingua germanica erano i barbari che, qualche secolo prima, avevano sconvolto l'Europa e con le invasioni avevano messo in ginocchio il già decrepito impero romano.

Se il massimo poeta tedesco del Duecento, Walther von der Vogelweide, scrive questi versi, è chiaro che vuole manifestare il suo risentimento per la scarsa considerazione e ammirazione che la sua gente e la sua lingua suscitano presso gli stranieri:
 
Tiusche man sint wol gezogen,
rehte als engel sint diu wîp getân.
Swer si schildet, derst betrogen:
ich enkan sîn anders niht verstân.
Tugent und reine minne,
swer die suochen wil,
der sol komen in unser lant:
dâ ist wünne vil!
lange müeze ich leben dar inne !
    Gli uomini tedeschi si presentano bene
proprio come gli angeli son fatte le donne:
chi li denigra è pazzo,
altrimenti non trovo altra spiegazione.
Virtù e fino amore
chi vuol trovarli
deve venire nella nostra terra:
qui sì che c'è la vera cortesia!
Ah, a lungo vorrei vivere io qui!
 
Non è improbabile fra l'altro che con questi versi Walther volesse rispondere a quegli altri, assai poco carini, scritti dal trovatore Peire Vidal che, a proposito della poesia germanica dice:
 
Almans trob deschauzitz e vilas
e quan negus se fen desser cortes
ira mortals et dols et enois es
    I tedeschi poetano male e villanamente
e quando provano a esser cortesi
provocano ira mortale, dolore e noia

 
E che dire poi del poeta Neidhart che in una sua canzone di crociata, oltre a lamentare le fatiche e le insidie della spedizione, deve anche difendersi dall'atteggiamento degli stranieri verso la sua lingua e la sua cultura?
Infatti il poveretto è costretto a scrivere:

Gegen der wandelunge
wol singent elliu vogelîn
den vriunden mîn
den ich gerne sunge
des sî mir alle sagten danc;
ûf mînen sanc:
ahtent hie die Walhen niht:
so wol dir, diutschiu zunge!
    A primavera cantano gli uccellini
ai miei amici,
ai quali io canterei volentieri,
e loro mi ringrazierebbero.
Ma sul mio canto
non si commuovono gli stranieri.
Che tu sia benedetta, oh lingua tedesca!

 
Eppure, nonostante lo scarso consenso dell'opinione pubblica verso la poesia in lingua tedesca, è probabile che alla corte di Federico II i versi in mittelhochdetsch circolassero almeno nella stessa misura di quelli francesi e provenzali.
Infatti c'è da dire che l'Imperatore non aveva simpatia per trovatori e trovieri (tant'è vero che abbiamo pochissime documentazioni della loro presenza nella corte federiciana) mentre invece sappiamo con certezza che, figlio di Enrico VI che aveva poetato in tedesco, ebbe rapporti stretti almeno con quel Walther von der Vogelweide di cui si diceva sopra.
E il poeta infatti gli dedica questo Spruch (poesia breve che va recitata e non cantata) in cui, con quello che oggi chiameremmo forse servilismo o leccapiedismo, lo ringrazia per il dono di un castello in Germania.
 

Ich hân mîn lêhen, al die werlt, ich hân mîn lêhen.
Nû entfürhte ich niht den hornunc an die zêhen,
und will alle boese hêrren dester minre flêhen.
 
Der edel künec, der milte künec hât mich berâten,
daz ich den sumer luft und in dem winter hitze hân.
Mîn nâhgeburen dunke ich verre baz getân:
Sie sehent mich niht mêr an in butzen wîs als sî wîlent tâten.
 
Ich bin ze lange arm gewesen ân mînen danc.
Ich was sô voller scheltens daz mîn âten stanc:
Daz hât der künec gemachet reine, und dar zuo mînen sanc.

 
 
Che vuol dire:
Ho il mio podere, ascoltatemi tutti, ho il mio feudo! Ora non avrò più paura del freddo invernale che mi gelava i piedi e non dovrò più supplicare signori malvagi! Il nobile re, il re generoso, ha permesso che io potessi avere aria d'estate e caldo d'inverno. Ora appaio ai miei vicini con un aspetto decisamente migliore: non mi guardano più come uno spettro, cosa che hanno fatto fino a poco tempo fa. Sono stato povero, mio malgrado, per troppo tempo! Ero così pieno di livore che mi puzzava il fiato. Il re ha fatto in modo che tornasse pulito: e così il mio canto.
 

Ma è certo anche che altri Minnesänger abbiano fatto parte, almeno per qualche tempo, della cerchia imperiale: Burkhart von Hohenfels nel 1216 è a Ulm al seguito di Federico II e successivamente farà parte della cerchia del figlio di lui Enrico VII; e sempre alla corte di Enrico VII c'è Götfrit von Nifen, di discendenza sveva, figlio di un certo Enrico che aveva fatto parte della cerchia federiciana partecipando alla crociata del 1228.
E ancora abbiamo testimonianza del Markgrave von Hohenburg: forse si tratta di Berthold, paggio della corte federiciana nel 1234, forse del padre di lui, Diepold, consigliere di Federico intorno al 1220.

Che sia l'uno o l'altro siamo sempre comunque in ambito strettamente federiciano.
Ma se abbiamo prove di relazioni dei tedeschi con i siciliani non va neanche dimenticato che il siciliano Pier della Vigna, altissimo funzionario della corte dell'imperatore e importante poeta della scuola poetica siciliana, è con Federico in Germania nel 1235 (e questo rende probabile per esempio un contatto fra lui e Götfrit von Nifen)
 
Minnesänger che fanno parte della cerchia imperiale non sono comunque i soli che possono aver avuto contatti con il mondo poetico siciliano. Senza soffermarci sui casi individuali di poeti tedeschi che capitano in Italia occasionalmente
 (come Ulrich von Liechtenstein) vale comunque la pena ricordare il ruolo dell'Italia meridionale come "porta d'oriente" e come porto per la partenza dei crociati diretti in Palestina.
Esiste infatti tutto un filone di "liriche di crociata" e di "canzoni di Puglia" in cui i Minnesänger ci narrano dei loro viaggi, della loro fede religiosa e dei loro sentimenti. Certo si tratta di un "genere" e così non possiamo mai essere sicuri che i narranti abbiano davvero fatto i viaggi di cui parlano.
Ma almeno siamo piuttosto sicuri che Tannhäuser alla crociata partecipò davvero, non fosse altro per come se ne lamenta: Wol imi, der nu beizen sol zu Pülle uf dem gevilde!
(e cioè: beato chi se ne può andare a caccia col falcone, in Puglia!)

Ma insomma, in che cosa possono aver influito i tedeschi sulla nascita della poesia siciliana?
Non certo per il lessico, incompatibile con quello di una lingua neolatina.
Non per i contenuti che, per quanto talvolta analoghi, mostrano queste analogie solo per una comune dipendenza dalla volontà imperiale.
Resta perciò solo una relazione di tipo strutturale e tecnica riferita in particolare alla ricchezza dell'impianto rimico dei versi: e in particolare a una evidente predilezione per strutture strofiche impostate su rima abc/abc (propria questa dei siciliani e dei soli poeti tedeschi che ruotavano nelle corti Hohenstaufen). Una influenza di tipo mnemonico-musicale che non trova invece corrispondenze nella lirica francese e provenzale e perfino scarse corrispondenze nelle poesie di Minnesänger di ambienti diversi da quello imperiale.

Se poi a questi collegamenti verificabili vogliamo aggiungere l'ipotesi che il sonetto sia l'evoluzione dello Spruch (il componimento come quello di Walther von der Vogelweide riportato sopra), breve e non musicato, possiamo farlo, ma senza avere nessuna prova concreta del fatto.

Né varrà la pena di considerare una prova di influenza germanica l'unico testo di poesia in mittelhochdeutsch sostanzialmente tradotto in italiano, la poesia ich zôch mir einen valken, versi del XII secolo del Sire di Kürenberc (il testo l'abbiamo già trascritto in un vecchio Matdid, ma per completezza lo riportiamo anche qui):

Ich zôch mir einen valken mêre danne ein jâr,
dô ich in gezamete als ich in wolte hân
und ich im sîn gevidere mit golde wol bewant,
er huop sich ûf vil hôhe und fluog in anderiu lant.
Sît sach ich den valken schône fliegen:
er fuorte an sînen fuoze sîdîne riemen,
und was im sîn gevidere alrôt guldîn,
got sende si zesamene die gerne geliep wellen sîn.
   
 
(traduzione nostra): Allevai un falco per più di un anno e riuscii ad ammaestrarlo proprio come lo volevo avere; e gli ornai le penne con l'oro. Ma lui si alzò e volò in un'altra terra. Rividi il falco che volava bellamente: portava alle zampe geti di seta e aveva le sue penne tutte rosse d'oro. Dio riunisca gli amanti che vogliono stare
assieme.
 
Nel codice Vaticano 3793, tra le rime attribuite a Pacino da Firenze, troviamo questo sonetto di un anonimo del XIII secolo:
Tapina ahimè, ch'amava uno sparvero:
amaval tanto ch'io me ne moria;
a lo richiamo ben m'era manero,
e dunque troppo pascer nol dovia.
 
Or è montato e salito sì altero,
as[s]ai più alto che far non solia,
ed è asiso dentro a uno verzero:
un'altra donna lo tene in balìa.
 
Isparvero mio, ch'io t'avea nodrito,
sonaglio d'oro ti facea portare
perché dell'uc[c]ellar fosse più ardito:
 
or se' salito sì come lo mare,
ed ha' rotti li geti e se' fug[g]ito,
quando eri fermo nel tuo uc[c]ellare.
   

Si tratta senza dubbio di una traduzione, o meglio, di un rifacimento poetico, del testo tedesco (troppe le analogie anche strutturali per pensare solo a una ispirazione
comune).
Tuttavia se il caso rimane curioso, e ancor più interessante può considerarsi per il fatto che dai versi tedeschi si sia ricavato un sonetto, non c'è motivo di pensare che appartenga alla tradizione della Scuola Poetica Siciliana.