Indubbiamente, nel
medioevo, fra le genti di lingua neolatina l'immagine dei
tedeschi non godeva di buona reputazione: questi sentimenti
ostili (magari non più di orrore come ai tempi dei Longobardi,
ma comunque di malcelato disprezzo) derivavano dal fatto che
quei popoli di lingua germanica erano i barbari che, qualche
secolo prima, avevano sconvolto l'Europa e con le invasioni avevano
messo in ginocchio il già decrepito impero romano.
Se il massimo poeta tedesco del Duecento, Walther von der
Vogelweide, scrive questi versi, è chiaro che vuole
manifestare
il suo risentimento per la scarsa considerazione e
ammirazione che la sua gente e la sua lingua suscitano presso
gli stranieri:
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Tiusche
man sint wol gezogen,
rehte als engel sint diu wîp getân.
Swer si schildet, derst betrogen:
ich enkan sîn anders niht verstân.
Tugent und reine minne,
swer die suochen wil,
der sol komen in unser lant:
dâ ist wünne vil!
lange müeze ich leben dar inne ! |
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Gli
uomini tedeschi si presentano bene
proprio come gli angeli son fatte le donne:
chi li denigra è pazzo,
altrimenti non trovo altra spiegazione.
Virtù e fino amore
chi vuol trovarli
deve venire nella nostra terra:
qui sì che c'è la vera cortesia!
Ah, a lungo vorrei vivere io qui! |
Non è improbabile
fra l'altro che con questi versi Walther volesse rispondere a
quegli altri, assai poco carini, scritti dal trovatore Peire
Vidal che, a proposito della poesia germanica dice:
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Almans
trob deschauzitz e vilas
e quan negus se fen desser cortes
ira mortals et dols et enois es |
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I tedeschi
poetano male e villanamente
e quando provano a esser cortesi
provocano ira mortale, dolore e noia |
E che
dire poi del poeta Neidhart che in una sua
canzone di crociata, oltre a lamentare le fatiche e
le insidie della spedizione, deve anche difendersi
dall'atteggiamento degli stranieri verso la sua
lingua e la sua cultura?
Infatti il poveretto è costretto a scrivere:
Gegen der wandelunge
wol singent elliu vogelîn
den vriunden mîn
den ich gerne sunge
des sî mir alle sagten danc;
ûf mînen sanc:
ahtent hie die Walhen niht:
so wol dir, diutschiu zunge! |
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A primavera
cantano gli uccellini
ai miei amici,
ai quali io canterei volentieri,
e loro mi ringrazierebbero.
Ma sul mio canto
non si commuovono gli stranieri.
Che tu sia benedetta, oh lingua tedesca! |
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Eppure, nonostante
lo scarso consenso dell'opinione pubblica verso la poesia in
lingua tedesca, è probabile che alla corte di Federico II i
versi in mittelhochdetsch circolassero almeno nella
stessa misura di quelli francesi e provenzali.
Infatti c'è da dire che l'Imperatore non aveva simpatia per
trovatori e trovieri (tant'è vero che abbiamo pochissime
documentazioni della loro presenza nella corte federiciana)
mentre invece sappiamo con certezza che, figlio di
Enrico VI che aveva poetato in tedesco, ebbe rapporti stretti
almeno con quel Walther von der Vogelweide di cui si diceva
sopra.
E il poeta infatti gli dedica questo Spruch
(poesia breve che va recitata e non cantata) in cui, con quello
che oggi chiameremmo forse servilismo o leccapiedismo, lo
ringrazia per il dono di un castello in Germania.
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Ich hân mîn lêhen, al
die werlt, ich hân mîn lêhen.
Nû entfürhte ich niht den hornunc an die zêhen,
und will alle boese hêrren dester minre flêhen.
Der edel künec, der milte künec hât mich berâten,
daz ich den sumer luft und in dem winter hitze hân.
Mîn nâhgeburen dunke ich verre baz getân:
Sie sehent mich niht mêr an in butzen wîs als sî wîlent
tâten.
Ich bin ze lange arm gewesen ân mînen danc.
Ich was sô voller scheltens daz mîn âten stanc:
Daz hât der künec gemachet reine, und dar zuo mînen sanc. |
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Che vuol dire:
Ho il mio podere,
ascoltatemi tutti, ho il mio feudo! Ora non avrò più paura del
freddo invernale che mi gelava i piedi e non dovrò più
supplicare signori malvagi! Il nobile re, il re generoso, ha
permesso che io potessi avere aria d'estate e caldo
d'inverno. Ora appaio ai miei vicini con un aspetto decisamente
migliore: non mi guardano più come uno spettro, cosa che hanno
fatto fino a poco tempo fa. Sono stato povero, mio malgrado, per
troppo tempo! Ero così pieno di livore che mi puzzava il fiato.
Il re ha fatto in modo che tornasse pulito: e così il mio canto.
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Ma è
certo anche che altri Minnesänger abbiano fatto
parte, almeno per qualche tempo, della cerchia
imperiale: Burkhart von Hohenfels nel 1216 è a Ulm
al seguito di Federico II e successivamente farà parte
della cerchia del figlio di lui Enrico VII; e sempre
alla corte di Enrico VII c'è Götfrit von Nifen, di
discendenza sveva, figlio di un certo Enrico che
aveva fatto parte della cerchia federiciana
partecipando alla crociata del 1228.
E ancora abbiamo testimonianza del Markgrave von
Hohenburg: forse si tratta di Berthold, paggio della
corte federiciana nel 1234, forse del padre di lui,
Diepold, consigliere di Federico intorno al 1220.
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Che sia l'uno o
l'altro siamo sempre comunque in ambito strettamente
federiciano.
Ma se abbiamo prove di relazioni dei tedeschi con i
siciliani non va neanche dimenticato che il
siciliano Pier della Vigna, altissimo funzionario
della corte dell'imperatore e importante poeta della
scuola poetica siciliana, è con Federico in Germania
nel 1235 (e questo rende probabile per esempio un
contatto fra lui e Götfrit von Nifen) |
Minnesänger che fanno parte della cerchia imperiale
non sono comunque i soli che possono aver avuto
contatti con il mondo poetico siciliano. Senza
soffermarci sui casi individuali di poeti tedeschi
che capitano in Italia occasionalmente
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(come
Ulrich von
Liechtenstein) vale comunque la pena ricordare il
ruolo dell'Italia meridionale come "porta d'oriente"
e come porto per la partenza dei crociati diretti in
Palestina.
Esiste infatti tutto un filone di "liriche di
crociata" e di "canzoni di Puglia" in cui i
Minnesänger ci narrano dei loro viaggi, della loro
fede religiosa e dei loro sentimenti. Certo si
tratta di un "genere" e così non possiamo mai essere
sicuri che i narranti abbiano davvero fatto i viaggi
di cui parlano.
Ma almeno siamo piuttosto sicuri che
Tannhäuser alla crociata partecipò davvero, non
fosse altro per come se ne lamenta: Wol imi, der nu beizen sol zu Pülle uf dem
gevilde!
(e cioè: beato chi se ne può andare a
caccia col falcone, in Puglia!) |
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Ma insomma, in che
cosa possono aver influito i tedeschi sulla nascita della poesia
siciliana?
Non certo per il lessico, incompatibile con quello di una lingua
neolatina.
Non per i contenuti che, per quanto talvolta analoghi, mostrano
queste analogie solo per una comune dipendenza dalla volontà
imperiale.
Resta perciò solo una relazione di tipo strutturale e tecnica
riferita in particolare alla ricchezza dell'impianto rimico dei
versi: e in particolare a una evidente predilezione per strutture
strofiche impostate su rima abc/abc (propria questa dei
siciliani e dei soli poeti tedeschi che ruotavano nelle corti
Hohenstaufen). Una influenza di tipo mnemonico-musicale che non
trova invece corrispondenze nella lirica francese e provenzale e
perfino scarse corrispondenze nelle poesie di Minnesänger di
ambienti diversi da quello imperiale.
Se poi a questi
collegamenti verificabili vogliamo aggiungere l'ipotesi che il sonetto
sia l'evoluzione dello Spruch (il componimento come
quello di Walther von der Vogelweide riportato sopra), breve e
non musicato, possiamo farlo, ma senza avere nessuna prova
concreta del fatto.
Né varrà la pena
di considerare una prova di influenza germanica l'unico testo di
poesia in mittelhochdeutsch sostanzialmente tradotto in italiano,
la poesia ich zôch mir einen valken, versi del XII secolo del
Sire di Kürenberc (il testo l'abbiamo già trascritto in un
vecchio Matdid, ma per completezza lo riportiamo anche qui):
Ich zôch mir einen valken mêre danne ein jâr,
dô ich in gezamete als ich in wolte hân
und ich im sîn gevidere mit golde wol bewant,
er huop sich ûf vil hôhe und fluog in anderiu lant.
Sît sach ich den valken schône fliegen:
er fuorte an sînen fuoze sîdîne riemen,
und was im sîn gevidere alrôt guldîn,
got sende si zesamene die gerne geliep wellen sîn. |
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(traduzione nostra): Allevai un falco per più di un
anno e riuscii ad ammaestrarlo proprio come lo volevo avere;
e gli ornai le penne con l'oro.
Ma lui si alzò e volò in un'altra terra.
Rividi il falco che volava bellamente: portava alle zampe geti di seta
e aveva le sue penne tutte rosse d'oro. Dio riunisca gli amanti che
vogliono stare
assieme. |
Nel codice
Vaticano 3793, tra le rime attribuite a Pacino da Firenze,
troviamo questo sonetto di un anonimo del XIII secolo: |
Tapina
ahimè, ch'amava uno sparvero:
amaval tanto ch'io me ne moria;
a lo richiamo ben m'era manero,
e dunque troppo pascer nol dovia.
Or è montato e salito sì altero,
as[s]ai più alto che far non solia,
ed è asiso dentro a uno verzero:
un'altra donna lo tene in balìa.
Isparvero mio, ch'io t'avea nodrito,
sonaglio d'oro ti facea portare
perché dell'uc[c]ellar fosse più ardito:
or se' salito sì come lo mare,
ed ha' rotti li geti e se' fug[g]ito,
quando eri fermo nel tuo uc[c]ellare. |
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Si tratta senza
dubbio di una traduzione, o meglio, di un rifacimento poetico,
del testo tedesco (troppe le analogie anche strutturali per
pensare solo a una ispirazione
comune).
Tuttavia se il caso rimane curioso, e ancor più interessante può
considerarsi per il fatto che dai versi tedeschi si sia ricavato
un sonetto, non c'è motivo di pensare che appartenga alla
tradizione della Scuola Poetica Siciliana.
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