Enzo era sicuramente bello, giovane, alto, biondo e con gli occhi azzurri.
E questo già aiuta un po' a diventare un personaggio leggendario.
Ma per Federico II questo figlio, anche se illegittimo, era stato davvero
prezioso: mentre il primogenito, Enrico VII, lo aveva tradito e per questo era
finito rinchiuso in prigione dove poi era morto suicida; mentre il
secondogenito (legittimo) Corrado IV era ancora piccolo e comunque destinato a
occuparsi della Germania, Enzo era diventato davvero l'alter ego di suo padre, e
aveva dovuto affrontare la difficilissima questione dei Comuni del nord Italia,
che non facevano altro che creare guai all'imperatore.
Per una decina d'anni, fino al 1249, Enzo non fa altro che combattere in nome di
suo padre, distinguendosi per valore e per coraggio.
Obbedientissimo all'imperatore, nel 1238 accetta di sposare Adelasia, vedova del
giudice di Torres e di Gallura, cosicché diventa Re
di Sardegna. E ancora una volta provoca un travaso di bile al Papa che sulla
Sardegna vantava dei diritti.
La sua vita coniugale però dura un attimo. Dopo il matrimonio, appena messa sulla
testa la corona di Re di Sardegna, deve tornare in nord Italia a guerreggiare
con i comuni ribelli.
Nel 1241 partecipa anche all'attacco quasi piratesco contro le navi che portano
a Roma vescovi e ecclesiastici da mezza Europa: avrebbero dovuto partecipare a
un Concilio indetto da papa Gregorio IX per scomunicare per l'ennesima volta Federico II.
Enzo li attacca, ne ammazza un bel po' e imprigiona gli altri. Che colpo!
Insomma è instancabile e fedele.
Ma nel 1249, combattendo contro i bolognesi, si attarda con la retroguardia del
suo esercito durante una ritirata. Cade da cavallo e viene preso prigioniero.
A nulla valgono i tentativi di Federico II di riavere suo figlio. Fra l'altro
dopo un anno l'imperatore muore e il regno svevo, progressivamente, si
disintegra. Re Enzo passerà il resto della sua vita, cioè ancora 23 anni,
prigioniero a Bologna.
E
in questi 23 anni nasce la sua leggenda.
Proprio per i miti nati attorno alla sua figura durante la prigionia è difficile
sapere realmente come abbia passato quegli anni. Probabilmente, dopo un primo
periodo di carcere più duro la sua detenzione in seguito era divenuta assai più
accettabile: sappiamo che ha avuto dei figli e anche che partecipava della vita
intellettuale della città di Bologna, all'avanguardia nella cultura europea per
la sua celebre università.
A lui si deve almeno una copia dell'arte venandi cum avibus (e che come
il padre fosse appassionato di falconeria lo si può intuire dal suo soprannome,
che era "Falconello"). |
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E a lui forse si deve anche la diffusione delle poesie siciliane a Bologna.
Poeta lui stesso, di Enzo ci rimangono parecchi versi.
In particolare della canzone S'eo trovasse pietanza ci resta una versione
ormai toscaneggiata, ma abbiamo anche le ultime due strofe in siciliano
originale (sempre attraverso le carte del filologo del Cinquecento
Giovanni Maria Barbieri, al quale dobbiamo quel poco che ci resta della poesia siciliana
in lingua non toscana). La trascriviamo qui sotto nelle due versioni, anche per
dar modo di osservare più da vicino le differenze fra le due lingue.
S'eo trovasse
Pietanza
d'incarnata figura,
merzè li chereria
ch'a lo meo male desse alleggiamento;
e ben fazo accordanza
infra la mente pura
ca pregar mi varria,
vedendo l'umil meo agecchimento.
E dico: oi me lasso,
spero in trovar merzede?
Certo meo cor non crede,
ch'eo sono isventurato
plui d'omo che sia nato;
so che 'nver mi Pietà verria crudele.
Crudele e spietata
seria per me Pietate
e contra sua natura,
secondo zo che mostra meo distino,
e Merzede adirata
plena d'impietate;
che ò tale vintura,
ca pur diservo a cui servir non fino.
Per meo servir non vio
chc gioi mi si n'acresca,
nanti mi si rifresca
pena doglios'a morte
ciascun giorno più forte,
und'eo morir sento lo meo sanare.
Ecco pena dogliosa
che 'nfra 'l meo cor abonda
e spande per li membri
sì c'a ciascun nde ven soperchia parte.
Giorno non ò di posa
si non come 'n mar l'onda.
Core, che non ti smembri?
Esci di pene e da mi ti diparte,
c'assai val meglio un'ora
morir, ca pur penare,
poi che non pò campare
omo che vive in peni
nì gaugio li s'aveni,
nì pensamento ca di ben s'apprenda.
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ULTIME STROFE COME CI SONO ARRIVATE NEELLA VERSIONE
TOSCANIZZATA
Tutti quei pensamenti
che 'l spirto meo divisa,
sono pene e dolore
senz'allegrar che non li s'accompagna;
e di tanti tormenti
abbondo in mala guisa,
che ’l natural colore
tutto perdo, tanto ’l cor batte e lagna.
Or si po’ dir da manti:
che è ciò, che non more,
poi ch’à sagnato ’l core?
Rispondo: chi lo sagna,
non per meo ben, ma prova sua virtute.
La virtute ch’ell’ave
d’aucidermi e guarire,
a lingua dir non l’oso
per gran temenza ch’aggio non la sdigni;
onde prego soave
pietà, che mova a gire,
e faccia in lei riposo,
e merzé umilmente se gli alligni,
sì che sia pietosa
ver me, che non m’è noia
morir, s’ella n’à gioia;
che sol viver mi place
per lei servir verace,
e non per altro bene che m’avegna. |
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ULTIME
STROFE CHE CI SONO ARRIVATE ANCHE IN SICILIANO ORIGINALE
Tutti
li pinsamenti
chi ’l spirtu meu divisa
sunu pen’e duluri
sinz’alligrar, chi nu lli s’accompagna
e di manti turmenti
abundu in mala guisa,
chi ’l natural caluri
ò pirdutu, tantu ’l cor batti e lagna.
Or si po’ dir da manti:
chi è zò, chi nu mori,
poi ch’ai sagnatu ’l cori?
Rispundu: chi lu sagna
In quil mumentu ’l stagna,
nu pir meu ben, ma pir la sua virtuti.
La virtuti ch’ill’avi
d’alcirim’ e guariri
a lingua dir nu l’ausu
pir gran timanza ch’aiu nu lli sdigni;
pirò precu suavi
piatà chi mov’ a giri
e faza in lei ripausu,
e merzì umilmenti si li aligni,
sì chi sia piatusa
ver mi, chi nu m’è noia
murir s’illa ’nd’à gioia,
chi sol vivri mi placi
pir lei sirvir viraci,
plui chi pir altru beni chi m’avegna. |
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