Matdid: Materiale didattico di italiano per stranieri aggiornato ogni 15 giorni.
A cura di Roberto Tartaglione e Giulia Grassi

 
   

Roberto Tartaglione

 
QVANDO HEINZ DIVENTA ENZO
 
 

 
Re Enzo, uno dei figli illegittimi di Federico II, per la sua vita avventurosa e tormentata è diventato nella storia un personaggio leggendario

 
 

TORNA ALLA LETTURA

 
Parecchi sono stati i personaggi leggendari nella famiglia di Federico II. L'imperatore, prima di tutto (così come prima lo era stato suo nonno Federico Barbarossa). Ma poi anche Manfredi, il figlio di Federico che dopo la sua morte tenta di salvare il Regno di Sicilia. E il nipote Corradino che inutilmente tenta di restaurare l'autorità sveva dopo la morte di Manfredi e viene decapitato, appena quindicenne, in quella che oggi si chiama Piazza del Mercato, a Napoli.
Ma quello che ha sempre ispirato il massimo interesse e la creazione di miti e racconti è certamente il figlio illegittimo che l'imperatore ha avuto da una nobildonna tedesca, Alayta o Adelaide, Re Enzo (1220/1224-1272), nome che viene da un'alterazione di Heinz < Heinrich.
Nell'Ottocento perfino Richard Wagner gli dedica un'opera, König Enzio. E poi si occupano di lui pittori e artisti di ogni genere, e ancora un compositore, stavolta italiano, gli dedica un'altra opera, il Re Enzo di Ottorino Respighi. E ancora gli dedicano versi Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli e oggi Re Enzo è oggetto di celebrazioni e commemorazioni specialmente nella città di Bologna (lo spettacolo Re Enzo, con testi del poeta e scrittore Roberto Roversi e musiche di Lucio Dalla, è stato presentato nelle manifestazioni di Bologna 2000 Città Europea della Cultura, nel giugno del 2000 a Piazza S. Stefano).
Insomma, che ha fatto di tanto speciale questo Heinz?
 
    
 

Enzo era sicuramente bello, giovane, alto, biondo e con gli occhi azzurri. E questo già aiuta un po' a diventare un personaggio leggendario.
Ma per Federico II questo figlio, anche se illegittimo, era stato davvero prezioso: mentre il primogenito, Enrico VII, lo aveva tradito e per questo era finito rinchiuso in prigione dove poi era morto suicida; mentre il secondogenito (legittimo) Corrado IV era ancora piccolo e comunque destinato a occuparsi della Germania, Enzo era diventato davvero l'alter ego di suo padre, e aveva dovuto affrontare la difficilissima questione dei Comuni del nord Italia, che non facevano altro che creare guai all'imperatore.
Per una decina d'anni, fino al 1249, Enzo non fa altro che combattere in nome di suo padre, distinguendosi per valore e per coraggio.
Obbedientissimo all'imperatore, nel 1238 accetta di sposare Adelasia, vedova del giudice di Torres e di Gallura, cosicché diventa Re di Sardegna. E ancora una volta provoca un travaso di bile al Papa che sulla Sardegna vantava dei diritti.
La sua vita coniugale però dura un attimo. Dopo il matrimonio, appena messa sulla testa la corona di Re di Sardegna, deve tornare in nord Italia a guerreggiare con i comuni ribelli.

Nel 1241 partecipa anche all'attacco quasi piratesco contro le navi che portano a Roma vescovi e ecclesiastici da mezza Europa: avrebbero dovuto partecipare a un Concilio indetto da papa Gregorio IX per scomunicare per l'ennesima volta Federico II. Enzo li attacca, ne ammazza un bel po' e imprigiona gli altri. Che colpo!
Insomma è instancabile e fedele.

Ma nel 1249, combattendo contro i bolognesi, si attarda con la retroguardia del suo esercito durante una ritirata. Cade da cavallo e viene preso prigioniero.
A nulla valgono i tentativi di Federico II di riavere suo figlio. Fra l'altro dopo un anno l'imperatore muore e il regno svevo, progressivamente, si disintegra. Re Enzo passerà il resto della sua vita, cioè ancora 23 anni, prigioniero a Bologna. E
in questi 23 anni nasce la sua leggenda.
Proprio per i miti nati attorno alla sua figura durante la prigionia è difficile sapere realmente come abbia passato quegli anni. Probabilmente, dopo un primo periodo di carcere più duro la sua detenzione in seguito era divenuta assai più accettabile: sappiamo che ha avuto dei figli e anche che partecipava della vita intellettuale della città di Bologna, all'avanguardia nella cultura europea per la sua celebre università.
A lui si deve almeno una copia dell'arte venandi cum avibus (e che come il padre fosse appassionato di falconeria lo si può intuire dal suo soprannome, che era "Falconello").

Re Enzo condotto prigioniero a Bologna, incisione di LUDOVICO PAGLIAGHI (XIX secolo)

E a lui forse si deve anche la diffusione delle poesie siciliane a Bologna.
Poeta lui stesso, di Enzo ci rimangono parecchi versi.
In particolare della canzone S'eo trovasse pietanza ci resta una versione ormai  toscaneggiata, ma abbiamo anche le ultime due strofe in siciliano originale (sempre attraverso le carte del filologo del Cinquecento Giovanni Maria Barbieri, al quale dobbiamo quel poco che ci resta della poesia siciliana in lingua non toscana). La trascriviamo qui sotto nelle due versioni, anche per dar modo di osservare più da vicino le differenze fra le due lingue.

S'eo trovasse Pietanza
d'incarnata figura,
merzè li chereria
ch'a lo meo male desse alleggiamento;
e ben fazo accordanza
infra la mente pura
ca pregar mi varria,
vedendo l'umil meo agecchimento.
E dico: oi me lasso,
spero in trovar merzede?
Certo meo cor non crede,
ch'eo sono isventurato
plui d'omo che sia nato;
so che 'nver mi Pietà verria crudele.
Crudele e spietata
seria per me Pietate
e contra sua natura,
secondo zo che mostra meo distino,
e Merzede adirata
plena d'impietate;
che ò tale vintura,
ca pur diservo a cui servir non fino.
Per meo servir non vio
chc gioi mi si n'acresca,
nanti mi si rifresca
pena doglios'a morte
ciascun giorno più forte,
und'eo morir sento lo meo sanare.
Ecco pena dogliosa
che 'nfra 'l meo cor abonda
e spande per li membri

sì c'a ciascun nde ven soperchia parte.
Giorno non ò di posa
si non come 'n mar l'onda.
Core, che non ti smembri?
Esci di pene e da mi ti diparte,
c'assai val meglio un'ora
morir, ca pur penare,
poi che non pò campare
omo che vive in peni
nì gaugio li s'aveni,
nì pensamento ca di ben s'apprenda.


 
   

 

ULTIME STROFE COME CI SONO ARRIVATE NEELLA VERSIONE
TOSCANIZZATA

Tutti quei pensamenti
che 'l spirto meo divisa,
sono pene e dolore
senz'allegrar che non li s'accompagna;
e di tanti tormenti
abbondo in mala guisa,
che ’l natural colore
tutto perdo, tanto ’l cor batte e lagna.
Or si po’ dir da manti:
che è ciò, che non more,
poi ch’à sagnato ’l core?
Rispondo: chi lo sagna,

non per meo ben, ma prova sua virtute.
La virtute ch’ell’ave
d’aucidermi e guarire,
a lingua dir non l’oso
per gran temenza ch’aggio non la sdigni;
onde prego soave
pietà, che mova a gire,
e faccia in lei riposo,
e merzé umilmente se gli alligni,
sì che sia pietosa
ver me, che non m’è noia
morir, s’ella n’à gioia;
che sol viver mi place
per lei servir verace,
e non per altro bene che m’avegna.

   

ULTIME STROFE CHE CI SONO ARRIVATE ANCHE IN SICILIANO ORIGINALE

 

Tutti li pinsamenti
chi ’l spirtu meu divisa
sunu pen’e duluri
sinz’alligrar, chi nu lli s’accompagna
e di manti turmenti
abundu in mala guisa,
chi ’l natural caluri
ò pirdutu, tantu ’l cor batti e lagna.
Or si po’ dir da manti:
chi è zò, chi nu mori,
poi ch’ai sagnatu ’l cori?
Rispundu: chi lu sagna
In quil mumentu ’l stagna,
nu pir meu ben, ma pir la sua virtuti.
La virtuti ch’ill’avi
d’alcirim’ e guariri
a lingua dir nu l’ausu
pir gran timanza ch’aiu nu lli sdigni;
pirò precu suavi
piatà chi mov’ a giri
e faza in lei ripausu,
e merzì umilmenti si li aligni,
sì chi sia piatusa
ver mi, chi nu m’è noia
murir s’illa ’nd’à gioia,
chi sol vivri mi placi
pir lei sirvir viraci,
plui chi pir altru beni chi m’avegna.