Linguisticamente
nella canzone troviamo un gran numero di francesismi e
provenzalismi. L'influenza dei trovatori e dei trovieri su
tutta la poesia dell'epoca, del resto, è cosa nota: va detto
comunque che mentre i provenzalismi sono di derivazione colta,
il francese era lingua parlata alla corte normanna di Federico
II.
Sono generalmente francesismi, per esempio, tutte le parole che
terminano in -anza (alligranza, dimuranza, dimustranza
ecc.) e in -aggio. Ma mentre il suffisso -aggio è sicuramente
francese (dal latino -aticum, viaticum > viaggio,
omaticum > omaggio), per quanto riguarda i suffissi
-anza e -enza c'è anche la possibilità di una diretta
derivazione latina (sperantia > speranza).
I provenzalismi fanno invece parte anche della lingua di Dante
giovane. Li abbandonerà solo in età matura.
Metricamente
la canzone siciliana si richiama certo alla struttura della
poesia provenzale, ma poi la ampia, e la perfeziona su una via
del tutto nuova e originale.
I versi accettati sistematicamente dai siciliani saranno il
settenario (verso con ultimo accento sulla sesta sillaba)
e l'endecasillabo (verso con ultimo accento sulla decima
sillaba). E Dante, nel De Vulgari Eloquentia, riconoscerà
solo a questi due versi il ruolo di versi cardine di tutta la
poesia italiana. E tali rimarranno in tutta la nostra storia
letteraria praticamente fino a Carducci, nell'Ottocento.
La canzone di Stefano Protonotaro ha 5 stanze e un congedo: ogni
stanza è divisa in fronte e sirma e i versi sono
tutti endecasillabi o settenari: le rime seguono lo schema
abc-abc // dd-ee-ff.
Le stanze sono unissonas, ovvero le rime si ripetono
uguali in ogni stanza.
Proprio dal punto di vista metrico i siciliani non sono stati
stanchi imitatori dei provenzali ma originali creatori di nuove
strutture. Inventano infatti il sonetto (componimento in
14 versi, due quartine e due terzine), forma poetica che avrà
una diffusione mondiale, grazie anche alla sua brevità che lo
rende particolarmente adatto a esprimere un motivo. Nella
letteratura italiana, ancora nell'Ottocento, Ugo Foscolo farà
largo uso di sonetti per affrontare temi come l'esilio, la
patria, la madre, la morte.
Musicalmente
non abbiamo prove che le poesie siciliane fossero musicate. C'è
anzi chi ritiene, e non senza ragione, che proprio per volontà
dell'Imperatore i versi siciliani dovessero abbandonare il
carattere gioioso e di intrattenimento festaiolo che avevano
invece le poesie francesi, provenzali o tedesche, proprio per
caratterizzarsi come forma poetica di alto livello
intellettuale. E tuttavia i poeti federiciani, e Stefano
Protonotaro in questa canzone, si dilettano a fare schemi
ritmici e a infrangerli continuamente, con un gusto che
certamente è musicale: il Protonotaro nei suoi versi crea
continuamente antitesi tra metro e sintassi, lega
sintatticamente i versi estremi di fronte e sirma e addirittura
una stanza con l'altra.
Dal punto di vista musicale l'effetto è notevolissimo: la
seconda stanza di questa canzone, per esempio, è costituita tutta
da un unico periodo che inoltre si protrae nella stanza
seguente.
Lessicalmente
vale la pena notare:
- fare: spesso usato come verbo "vicario" per
rendere più astratti i concetti (fare accordanza per
accordare ecc.)
- placiri: è usato in modo leggermente diverso dal nostro
piacere, essendo più associato all'idea della bellezza; è
il piacere di Paolo che farà innamorare Francesca, e
questo spiega perché in italiano piacere è un verbo il cui
soggetto non è l'amante ma l'amato.
- pregio: termine largamente impiegato nella lirica
provenzale, deriva dal latino pretium, che dà in italiano
il doppio esito pregio e prezzo (così come
radium dà il doppio esito raggio e razzo); il
significato antico di pregio è relativo al valore morale e
intellettuale, e anche a quello della considerazione sociale.
- dolciore: in italiano moderno diremmo certamente
dolcezza e quella terminazione in
-ore fa sicuramente pensare a
un provenzalismo. È certamente vero che il suffisso
-ore,
-tore: esiste comunque in italiano e indica l'agente (scrittore
= che scrive; oratore = che parla), ma è altrettanto vero
che in italiano non è un suffisso valido per rendere sostantivi
di carattere astratto. Del resto nella poesia siciliana si parla
di la dolciore, sostantivo femminile, proprio come in
francese.
- illu: certo significa lui, ma il senso più profondo è
difficilmente traducibile. Esiste in toscano moderno (la mi
dica) e ne abbiamo diversi esempi nei Promessi Sposi di
Alessandro Manzoni. In pratica è un soggetto indeterminato
impersonale.
- miraturi: nella lirica siciliana la parola specchio è
resa dai due termini speglio (francesismo) e miratore
(provenzalismo). Dante Alighieri userà tutte le forme:
speculo, speglio e miraturi.
Anche Stefano Protonotaro usa miraturi nella seconda stanza e
speclu nella terza. Miraturi è la stessa parola che poi
darà mirror in inglese.
- pariri, li pari: il verbo parere, come del resto
oggi in tutti i dialetti italiani, era estremamente più diffuso
del verbo sembrare. Lo stesso Dante Alighieri nella
Divina Commedia lo usa solo un paio di volte, come "parola
dotta" e per esigenze di rima.
Sembrare probabilmente ci arriva dal provenzale
semblare. Stranamente non ha subito la normale evoluzione
delle parole con nesso -bl- (del resto diciamo
sembiante e non sembrante o semblante). Questa
evoluzione di -bl- in -br- fa pensare proprio a un
provenzalismo introdotto dai siciliani.
- tutisuri: sempre, o meglio "a tutte le ore"
- metto in oblio: solita particolarità dell'italiano
antico di sostituire un verbo (obliare) con un ausiliare
accompagnato da un sostantivo deverbale: l'effetto è sempre
quello di rendere più astratto il discorso.
- putria, vurria, avria e forme del condizionale: si
tratta di forme che resistono nella letteratura fino
all'Ottocento, fino a Leopardi e a Carducci che le usavano su
imitazione di Dante e Petrarca, che a loro volta le avevano prese
dai siciliani. Del resto la differenziazione dei condizionali e
dei futuri rispetto al latino classico è presente in tutte le
lingue romanze, segno che si era già prodotta a livello di
latino volgare (non dopo il X secolo, quindi).
Già nel III secolo sono attestati futuri del tipo cantare
habeo, che è la base del nostro cantare ho>
canterò.
I motivi di una così diffusa preferenza sono probabilmente da
ricercare nella tendenza a preferire parole fisicamente più
consistenti (fra os e bucca abbiamo preferito
bucca); parole più "forti" (fra aures e oricla
abbiamo scelto la seconda per arrivare alla parola orecchio);
e magari con un uffisso alterativo che le rende più corpose (genu
> genocolum > ginocchio).
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Graficamente
poi bisogna pure porsi qualche domanda, perché certo non è
facile rappresentare per iscritto una lingua nuova o comunque
fino a quel momento solo parlata. Abituati a scrivere in latino,
i funzionari della corte federiciana inevitabilmente latinizzano
le parole del volgare. Nello stesso testo possiamo trovare per
esempio la stessa parola ripetuta due volte, una volta scritta
mostrai (scritto che corrisponde
alla pronuncia) e
un'altra volta scritta monstrai (scritto che corrisponde
alla scrittura latina). Lo stesso Francesco Petrarca, un po' di
anni dopo, scriveva facto quando certamente pronunciava
fatto.
Molti spunti sulla fonetica dell'epoca ci vengono dallo studio
delle rime nelle poesie: se rapto è in rima con facto
è probabile che si pronunciasse ratto e fatto; se
scripto rima con ficto è probabile che si
pronunciasse già scritto e fitto; se sanza e
lanza
rimano con costantia e prudentia è ragionevole
credere che si pronunciasse senza, lanza, costanza e
prudenza.
E
poi l'amore,
l'unico argomento tollerato per la poesia della corte federiciana. Mentre per i poeti toscani stilnovisti l'amore, per
essere perfetto, deve essere ricambiato, per i siciliani non è
così. I siciliani sono dell'idea che se un amante non ricambiato
non sopporta la sua situazione perde la speranza, mentre solo
chi sa |
sopportarla acquista la gloria. Da qui le contorsioni letterarie di
questa lirica disceptante che probabilmente non
risponde troppo alla normale sensibilità moderna, ma che pure
nella concezione che chi ama è più fortunato di chi è amato non ci è
neanche del tutto estranea. |
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