Chi ama il cinema western non può non
amare la cosiddetta arte del West, quella cioè che illustra la
conquista del West americano: paesaggi spettacolari e scene di vita
(indiani, cow boy, pionieri) dei territori a ovest del fiume Mississipi.
Una pittura epica, sviluppatasi tra 1820 e 1920 circa, che esaltava il
"mito" del West e della frontiera, e che è stata spesso accusata di
eccessivo nazionalismo, ai limiti del razzismo e dell'imperialismo
(qualcuno la chiama, con un po' di disprezzo, "cow boy art").
Fa un certo effetto, però, immaginare i pittori di bisonti, di paesaggi
rocciosi inesplorati, di foreste impenetrabili e di fiumi impetuosi,
insomma del "selvaggio West", a passeggio nei giardini ben curati e
traboccanti di statue di Villa Borghese a Roma o mentre ammirano i
palazzi del Canal Grande ondeggiando su una gondola veneziana.
Eppure è così. Seguendo quella che era una tradizione secolare per gli
artisti di mezzo mondo - il viaggio in Italia, per studiare le
bellezze artistiche e naturalistiche del Belpaese - troviamo alcuni dei
grandi protagonisti dell'arte del West alle prese con rovine
antiche, monumenti rinascimentali e barocchi, paesaggi decisamente meno
selvaggi di quelli americani.
Il viaggio in Italia era considerato fondamentale per la formazione
professionale di ogni artista; ecco spiegata la presenza di pittori
americani agli inizi della loro carriera, venuti qui per studiare. Ma
ritroviamo qualcuno di loro anche anni dopo, quando ormai era ricco e
famoso negli Stati Uniti, forse ritornato nel nostro paese perché
sentiva la necessità di mostrare le proprie capacità tecniche in un
contesto artistico "difficile" come quello italiano.
È il caso di Albert Bierstadt (1830-1902), venuto una prima volta
nel 1857 e, di nuovo, nel 1868. Proprio dipingendo paesaggi italiani
aveva elaborato una "formula compositiva" che ha sfruttato poi nei suoi
successivi paesaggi americani: piccole figure o animali in primo
piano per dare l'idea delle proporzioni, una vasta distesa d'acqua in
secondo piano, montagne avvolte nella nebbia sullo sfondo e, in
alto, cumuli di nuvole (le due foto qio sotto).
The Marina
piccola, Capri, 1859, olio su tela (Abright-Knox Art Gallery,
Buffalo, New York)
Among
the Sierra Nevada Mountain, California,
1868, olio su tela
(National Museum of the American Art, Smithsonian Institute)
Per altri paesaggisti, invece, il viaggio in Italia ha avuto un ruolo
quasi esistenziale. È il caso di Thomas Moran (1837-1926). Questo
pittore dei grandi paesaggi montuosi del West era stato in Italia
all'inizio della sua carriera, come Bierstadt.
Ma solo più tardi, dopo i viaggi fatti a Venezia del 1886 e del 1890 ha
sviluppato una vera infatuazione per la città italiana. Ha cominciato a
dipingerla in maniera ossessiva, avvolta in una nebbia magica che ne
trasfigura l'aspetto, trasformandola in un luogo dell'immaginazione e
del sogno. Ne era talmente innamorato che per rivivere le sensazioni
provate a Venezia aveva comprato una gondola, che teneva ormeggiata in
un lago vicino a casa sua a Easthampton. E diceva che "l'America è
più ricca di materiale per il vero artista [...] di ogni altro paese del
mondo (esclusa Venezia)".
Ma è stata la sua pittura in generale ad essere condizionata da questa
passione: infatti, nei dipinti della frontiera americana realizzati
negli ultimi trent'anni di vita le rappresentazioni diventano sempre
meno realistiche e sempre più fiabesche. Venezia e le grandi montagne
dell'ovest come apparizioni ideali.
Entrance
to the Grand Canal Venice, 1906
Grand Canyon,
1921
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