Sotto la spinta di alcuni
principi teorici elaborati da studiosi, linguisti e intellettuali (e da donne
naturalmente) per la maggior
parte provenienti dall’ambito culturale da cui prese avvio il movimento
femminista degli anni Settanta, nel 1993 è stato pubblicato un opuscolo
ufficiale che ha suscitato numerosi dibattiti e controversie tra linguisti e non
solo.
Il libretto si intitola "Il sessismo
nella lingua italiana".
A scatenare le polemiche sono state soprattutto le Raccomandazioni
per un uso non sessista della lingua incluse nel terzo capitolo
dell’opuscolo, il quale, ricordiamolo, veniva pubblicato dalla Presidenza del
Consiglio dei ministri e curato da Alma Sabatini. |
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Ma cosa è il sessismo? Il
sessismo è la tendenza a
giudicare le capacità e le attività di una persona
in base al sesso, cioè ad attuare una discriminazione sessuale che nella maggioranza
dei casi è a sfavore della donna. Scopo di queste raccomandazioni era
quindi quello di dare suggerimenti "compatibili con il sistema della
lingua per evitare alcune forme sessiste della lingua italiana".
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Insomma: tentare di combattere la discriminazione sessuale nei confronti delle
donne attraverso la demolizione dell’egemonia delle forme maschili
all’interno del sistema linguistico. A dirla con l’autrice dell’opuscolo,
ciò che conta non è quindi "il puro e semplice uso della parola diversa come lip service, bensì un cambiamento più sostanziale
dell’atteggiamento nei confronti della donna, un senso che traspaia attraverso
la scelta linguistica".
È appunto nel terzo capitolo che
troviamo le famigerate raccomandazioni, organizzate in due colonne di parole:
una contrassegnata in alto da un NO e l’altra da un SÌ. La prima schiera
comprende le parole da evitare, la seconda le forme consigliate.
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Tra le forme da evitare troviamo
subito diritti dell’uomo,
caccia
all’uomo, uomo della strada, paternità
di un’opera da sostituire con i rispettivi e più democratici: diritti
umani, caccia all’individuo o alla persona, individuo della strada, maternità
di un’opera. Tutte forme che, nell’uso attuale, farebbero
sorridere.
Particolare attenzione è prestata anche alla posizione che il sostantivo
femminile occupa all’interno della frase: l’ordine fratelli
e sorelle andrebbe senz’altro capovolto a favore del più galante sorelle e fratelli. Così come è preferibile, anzi raccomandabile,
usare il
popolo romano, ateniese, inglese… in luogo di
i
romani, gli ateniesi, gli inglesi
e
così via.
L’eccesso di maschilismo rappresentato dall’accordo al maschile del
participio passato in presenza di sostantivi di genere misto (Marco,
Maria, Anna e Francesca sono andati) è invece risolto nel modo seguente:
bisogna accordare il participio passato con l’ultimo sostantivo della serie e
non obbligatoriamente con il maschile.
Si auspica inoltre l’epurazione dal dizionario di parole ritenute
correntemente del tutto innocue, come "signorina" (a meno che non sia
rivolto a una donna in età avanzata!), in quanto sostantivo "dissimetrico
rispetto allo scomparso signorino".
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Un campo particolarmente
sensibile ai problemi del sessismo è quello delle professioni, dei mestieri e
delle cariche sociali. Senza troppi giri di parole, l’autrice dell’opuscolo
ci sprona subito a "prendere una posizione, scegliendo forme femminili
accettabili e di pari valore linguistico alle corrispondenti forme maschili".
Di seguito, una succulenta lista
di suggerimenti che a oggi non ha ancora ricevuto nessun favore da parte dei
parlanti e degli scriventi, a eccezione di qualche sporadica e per nulla stabile
comparsa in notiziari e giornali (tra parentesi sono indicate le forme proibite
per il genere femminile): amministratrice
unica (amministratore unico), segretaria generale (segretario generale),
consigliera comunale (consigliere comunale), l’avvocata (l’avvocato,
l’avvocatessa), la medica (il medico), l’architetta (l’architetto), la
chirurga (il chirurgo), l’arbitra (l’arbitro), l’ingegnera
(l’ingegnere), la magistrata (il magistrato), la prefetta (il prefetto), la
rettrice dell’Università (il rettore dell’Università), la notaia (il
notaio), la sindaca (il sindaco), la questrice (il questore), la poeta (la
poetessa, forma ormai stabilmente entrata nell’uso). In particolare, nei
nomi femminili in -essa, viene
rilevata una connotazione ironico-spregiativa, che ne interdice l’uso. Dal
dizionario vengono dunque depennate parole attualmente inoffensive come vigilessa,
professoressa, dottoressa e studentessa
(sebbene per queste ultime tre venga poi riconosciuta un’attenuazione del tono
ridicolizzante). Va sottolineato che vigilessa
ha assunto ormai un significato non sfavorevole, così come le altre forme
appena citate. Le raccomandazioni auspicavano invece il sopravvento di parole
come la vigile, la professora, la dottrice,
la studente.
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Più fortuna hanno avuto le
raccomandazioni in merito a parole come la
scrittrice in luogo di lo scrittore,
la preside invece di il preside,
la presidente invece di il presidente, la
corrispondente per il corrispondente,
la manager per il manager, la parlamentare per il
parlamentare, la cancelleria per
il cancelliere: tutte forme attecchite nell’uso corrente.
Altre raccomandazioni hanno dato
degli esiti più o meno incerti, non ancora completamente di uso stabile: la
giudice o il giudice, la deputata o il
deputato, la ministra o il ministro?
La risposta è lasciata alla coscienza linguistica (o ideologica) di ciascuno di
noi.
Un paragrafo a parte andrebbe
dedicato ai sostantivi che designano cariche militari. Qui, come in nessun altro
ambito, le forme femminili sono tutt’oggi praticamente inesistenti. I numerosi
sostantivi suggeriti dalla Sabatini, tra cui la marescialla, la capitana,
la caporale, la colonnella, la generale,
la maggiore, la carabiniera, la
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brigadiere,
hanno avuto tutti la medesima sorte: l’inesorabile naufragio (va detto che la carabiniera e la bersagliera esistono già nel
linguaggio familiare figurato, ma con senso tutt'altro che adeguato alla carica
militare).
Ricordando una frase pronunciata
a suo tempo da Irene Pivetti (allora Leghista), quando si è definita «Presidente della Camera»,
«cittadino» e «cattolico», non possiamo fare a meno, neanche qui, di
concludere con qualche punto di domanda: la lingua può essere cambiata con la
coercizione, per mezzo cioè di un atto di volontà? Inoltre: è la lingua a
condizionare i valori socio-politici di un Paese, o viceversa? E ancora: l’uso
“politicamente corretto” della lingua è in grado di liberare una persona
dall’oppressione sociale, oppure, come temeva la Presidente (o la Presidentessa?
o il Presidente?) della Camera Irene Pivetti, rischia di ridicolizzarla o
ghettizzarla?
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