Matdid, materiali didattici di italiano per stranieri a cura di Roberto Tartaglione e Giulia Grassi, Scuola d'Italiano Roma |
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Il turpiloquio fino a
qualche tempo fa era esclusivo appannaggio della "società
maschile" e si riteneva di pessimo gusto dire "certe
parole" in presenza delle "signore". Ma negli ultimi
decenni le parolacce sono entrate nel linguaggio parlato un po' a tutti
i livelli, non solo fra i giovani, non solo fra uomini e donne, ma per
colorire discorsi o espressioni particolari, anche per radio, per
televisione o sui giornali non è raro trovare parole che fino a qualche
anno fa si ritenevano impronunciabili.
Tre sono i tipi di
"espressioni volgari" usate: la bestemmia, la parolaccia e
l'imprecazione. La parolaccia
vera e propria ha invece il significato di un insulto contro una
persona. Tuttavia il suo uso così frequente (perfino in senso positivo,
quasi come complimento!) ha molto sminuito la sua violenza. Valga per
tutti l'esempio di una tipica parolaccia diffusa a livello nazionale, ma
specialmente a Roma, figlio di mignotta (da figlio di madre
ignota), usata contro una persona per darle del
"bastardo". Questa, che pure pronunciata con durezza è
un'offesa abbastanza grave, ha poi in romanesco una connotazione quasi
affettuosa: infatti, per tradizione, i bambini figli di nessuno sono
persone particolarmente furbe, abilissime nell'arte di arrangiarsi,
dinamiche e scaltre, abituate come sono a lottare con la vita giorno per
giorno. Per questo, non di rado, questa espressione viene rivolta a un
amico furbo, che ha dimostrato la sua scaltrezza in qualche occasione
speciale. L'imprecazione, ovvero la parolaccia usata solo per esprimere il proprio disappunto, o anche impiegata come intercalare, senza voler offendere nessuno e senza più nessun vero significato letterale, se non quello di esprimere rabbia, sorpresa, gioia, dolore e comunque un'emozione forte. Di questo tipo di parolaccia abbiamo esempi perfino in tedesco, in cui la parola Scheisse! non ha alcun valore semantico se non quello di mostrare la propria rabbia, corrispondente al francese merde! e all'italiano cazzo!, privo di qualunque riferimento sessuale e esclusivamente usato a mo' di imprecazione o di intercalare. Naturalmente per lo studente straniero, che in Italia ha presto l'occasione di conoscere varie forme di turpiloquio, è consigliabile un apprendimento esclusivamente passivo di questo, perché difficilmente (a meno di non soggiornare lungamente in questo paese) potrà imparare a dosare con esattezza la maggiore o minore gravità di determinate parolacce e l'opportunità di proferirle senza rischiare una brutta figura o una reazione anche vivace dell'interlocutore. Infatti, se è vero che esiste perfino un "uso aristocratico" del turpiloquio (per esempio nei salotti bene) o anche un uso "intellettuale", per cui queste parole sono proferite quasi con affettazione, esiste sempre la parola "impronunciabile" che può bollare col marchio della volgarità chi l'abbia detta. Ma anche lo stesso criterio della "impronunciabilità" in italiano è dettato più dal contesto che non dalla parola in sé. (da Lingue Italiane, di Giulia Grassi e Roberto Tartaglione, CI.ELLE.I Edizioni, Firenze 1985) |