Matdid, materiali didattici di italiano per stranieri a cura di Roberto Tartaglione e Giulia Grassi, Scuola d'Italiano Roma

 
 

Roberto Tartaglione  

 
UN CANTANTE
PER AMICO
   

Un articolo di Michele Serra pubblicato sulla Repubblica all'indomani della morte di Lucio Battisti

   

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La morte di Lucio Battisti è un grande e profondo dispiacere popolare. Che cosa significhi "popolo", oggi, non è più ben chiaro. Nel caso, però, è chiarissimo: significa che molti milioni di italiani di ogni ceto sociale e di almeno due generazioni hanno cantato le stesse canzoni. C'è una chiave, in ogni bella canzone e in tante di Battisti, che ci apre e ci scioglie come fossimo prigioni di burro. ...

Il ricordo di un amore, il primo bacio, la prima automobile, i compagni di scuola, una vacanza, una chitarra, una tenda, un falò sulla spiaggia, la classica e - giustamente - sbeffeggiatissima gita in pullman, e su tutto la giovinezza che sfuma (ad libitum, come era scritto nell'ultima riga dei vecchi spartiti), e va a morire silenziosa nel letto di un grande ospedale. ...
 
Secondo l'opinione straniera qui si canta e si fischia per la strada come non avviene in alcun altro luogo al mondo, neppure nella sorella Francia dove pure Trenet, Montand e Piaf sono pezzi di patria, sono nel cuore della gente, ma non nell'aria, perlomeno non come da noi le nostre canzoni. Dice il luogo comune che è per via del clima sereno, magari dell'umore che manteniamo buono nonostante l'iracondia non ci manchi. Fatto sta che ci piace cantare, e se per secoli lo abbiamo fatto melodrammaticamente, rimaneggiando l'opera o Napoli o i non meno struggenti canti sociali, è con Battisti che abbiamo cominciato a farlo modernamente, contagiati da quella voce esile e (finalmente) non retorica, persuasi dalla melodica che rimaneva ariosa, aperta, italianissima, ma più curiosa e libera, come se avesse finalmente viaggiato, e lavato i panni lontano da Marechiaro.

Erano gli anni del beat e dei Beatles, seconda metà dei Sessanta. Chitarre, batterie, capelli lunghi, Battisti ne sbucò fuori perfettamente in linea con il ritmo dei tempi, ma con una sua inconfondibilità smagliante. Era così insolito da sorprendere ad ogni canzone, ma così solito da farla ricordare a chiunque al primo ascolto, e non saprei definire in altra maniera la qualità del genio nell'evo della riproducibilità tecnica: rimanere unico e insieme diventare, all'istante, di chiunque. E poi, soprattutto, cantava in italiano, aiutandoci a metabolizzare davvero, e definitivamente, quel salto d'epoca, quello scatto di vitalità che Beatles, Stones e Dylan ci avevano fatto balenare davanti, ma in una lingua ancora poco conosciuta, l'inglese, che per noi era suono ma non significato.

Le parole di Battisti, invece, si capivano due volte bene. Perché era italiano e perché le scriveva Mogol, paroliere abilissimo, fantasioso e "facile" tanto quanto, in parallelo, fiorivano i testi "difficili" dei cantautori. La biforcazione tra canzonetta e canzone colta fu in quegli anni netta e anche traumatica, riflettendo la medesima spaccatura tra impegno e disimpegno che divideva la società e specialmente la gioventù. Di qui (non certo dal fragile pettegolezzo, ieri nato dalla bigottaggine della sinistra e oggi scioccamente riecheggiato a destra, che voleva Battisti "fascista") la solida collocazione di Lucio in un suo mondo a parte, nettamente separato da quello dei grandi cantautori come De André, Guccini, De Gregori, Dalla, Vecchioni e più tardi Fossati e Conte. Non è affatto vero che questa differenza abbia generato, nel pubblico, una qualche discriminazione (addirittura "politica"!) nei suoi confronti. Ogni ragazzo con chitarra aveva in repertorio, non appena compiuto il minimo apprendistato del giro di do, parecchie canzoni di Battisti.

Nelle Renault 4 dei capelloni come nei juke-box di paese, nelle feste di liceo o nei lunghi pomeriggi post-scolastici di stracco studio anche chi sapeva a memoria Contessa e Bocca di rosa e bazzicava Brassens, Brel e addirittura Il disertore di Vian, suonava e cantava anche Battisti, comperava i suoi dischi, e nei quadernetti dove i tanti orecchianti annotavano testi e accordi, le canzoni di Mogol-Battisti non mancavano mai, proprio mai. (Ammesso e concesso che chi scrive sia stato, in quegli anni, tipicamente ragazzo di sinistra, sono in grado, oggi, di sfidare in un pubblico duello, chitarra alla mano, chiunque perseveri nella buffa teoria che Battisti fosse all'indice, o ci si vergognasse di amarlo. So eseguire ancora oggi, quasi correttamente e a memoria, almeno una ventina di sue canzoni. Ed è allora che le ho imparate per tutta la vita, non certo adesso che non imparo quasi più niente...). Verissimo è, invece, che Mogol-Battisti sono stati consumati e amati per altre vie, rispetto a quelle, fermamente intellettuali, della canzone d'autore. 

L'enigma della bellezza, anche questo sappiamo, sfugge perfino (quando la si abbia), alla nostra intelligenza critica. È l'intelligenza critica, per esempio, che ci fa classificare la gran parte dei testi di Mogol nella categoria, oggi in disuso, del kitsch, antenato piccolo-borghese del trash. Di qui a saper spiegare perché tanto kitsch ci disgusti, e invece il kitsch di Mogol-Battisti ci abbia così facilmente conquistato da definirlo "bello", e da considerarlo "nostro", corre una lunga strada.

Sono poderosamente kitsch molte delle più celebrate romanze d' opera, è fantasticamente kitsch la Torre Eiffel (che pare già nata per essere riprodotta in mostruosi fermacarte e ninnoli da scrivania), è offensivamente kitsch lo sky-line della Riviera romagnola che pure sprizza la più sensuale delle promiscuità amorose e/o familiari d'Italia, sono tipicamente kitsch la gran parte delle canzonette, così impudicamente e goffamente costrette a riassumere in pochi secondi e in un'arietta memorabile i sentimenti e i drammi detti ben altrimenti in romanzi lunghi una vita.
Pure, dentro parecchi di questi surrogati d'arte, di queste contraffazioni tascabili, qualcosa, spesso, ci afferra per sempre. Battisti ci ha preso, quasi uno per uno, ciascuno nella propria vita e nella propria storia, così tante volte da farne, indiscutibilmente, il più grande compositore e cantante di canzonette che l'Italia abbia mai avuto. La sua misteriosa vita non ci permette di sapere se questo, umanamente, gli sia bastato. Certo qualche malumore, qualche insoddisfazione dovette toccarlo, se è vero che, rotto il sodalizio con Mogol, cercò di alzare tono e ambizioni scrivendo, con il poeta Pasquale Panella, quattro dischi ostici, cifrati, scostanti (almeno il primo dei quali, Don Giovanni, resta però un capolavoro assoluto, con buona pace dei nemici dell'intellettualismo).
Si confermò grande musicista e ineguagliabile cantante (ah quella voce, quella voce acerba, selvatica, intonatissima, da eterno ragazzino con il cruccio di vivere), ma non riuscì a ripetere quel sorvolo inarrestabile sopra ogni casa, ogni bar, ogni automobile, ogni coppia in amore. Le sue canzoni scritte con Mogol, lo ripeto, sono invece per tutta la vita. Sono nell'aria, sono aria e suoneranno all'infinito, o almeno per quanto infinita possa sembrarci la vita, tre minuti di canzone più tre minuti di canzone più tre minuti di canzone più tre minuti di canzone...

(10 SETTEMBRE 1998)