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martedì
15 gennaio 2002
ALSO
SPRACH BERLUSCONI
Abbiamo
chiesto a un linguista di spiegarci
come parla il nostro primo ministro. Ecco le sue conclusioni
di
Roberto Tartaglione
Il male principale
dell’Italia è stato l’ideologismo. Certo l’ideologia comunista
prima di tutto (vecchia ideologia condannata dalla storia), ma in
generale un ideologismo inteso come porsi di fronte ai problemi in modo
cervellotico e complesso. Un errore questo di cui tutti sono stati
vittima, e in particolare i partiti politici (che magari avevano
altrove il loro baricentro ideologico). Berlusconi si pone subito
come persona contraria a ogni suggestione ideologica: oggi può
vantare il fatto che i vecchi muri ideologici sono stati quasi del
tutto abbattuti.
Berlusconi quindi è il più
moderno dei capi di governo che l’Italia abbia mai avuto e il
più moderno di tutti gli altri capi di governo europei che, comunque,
nel loro passato hanno certamente avuto momenti di
“ideologizzazione” che lui non ha conosciuto.
Per questo la parola moderno
diventa quasi un’ossessione nel suo linguaggio e la modernizzazione
del paese (e delle istituzioni) rappresenta il suo obiettivo
principale. La tensione verso il moderno si esprime in particolare nelle
aggettivazioni che Berlusconi usa per definire il modo di pensare degli
avversari: arcaico, vecchio, obsoleto, antistorico. I cedimenti
intellettualistici (o peggio, ideologici) sono invece definiti integralisti,
irrazionali, retorici, e talora dettati dall’ideologia
dell’odio di classe o dell’invidia sociale.
Con questa mentalità la
classe politica precedente ha provocato il declino (progressivo,
inarrestabile) dello Stato (inefficiente, burocratico) in cui
vivevano cittadini-sudditi. Il governo precedente (incapace,
indeciso, inerte) che ha spesso rischiato la deriva (autoritaria,
dirigista e illiberale) con le sue leggi (incostituzionali,
liberticide, antistoriche), ha lasciato una scuola obsoleta
e una università inefficiente. Questa è la grigia eredità
della sinistra.
La frequenza di aggettivi
negativi introdotti da in- può avere diverse spiegazioni: una di
queste è legata al fatto che questi aggettivi hanno un doppio valore
che si può facilmente sovrapporre: se dico in-crollabile intendo
dire che non può crollare. Se dico in-capace intendo
invece dire che non è capace. L’effetto è comunque
quello di suggerire il sospetto che qualcuno non è capace perché
non può essere capace. Nello stesso tempo l’aggettivo negativo
introdotto da in- mette in primo piano anche la forma positiva (-capace):
in qualche modo dire che qualcuno è in-capace significa anche
ricordare che chi parla è invece capace.
Queste forze avversarie
hanno sempre cercato di bloccare e di soffocare i nuovi
valori promossi dal Berlusconismo: valori che trovano espressione nella
frequenza di vocaboli come iniziativa, operatività, innovazione,
flessibilità, identità, sussidiarietà (vocabolo questo che sembra
preferito a solidarietà). E in più la creatività
(termine che nel linguaggio di Berlusconi ha un significativo
slittamento semantico e diviene sinonimo di imprenditorialità).
La scommessa del nuovo
governo è però tutta sul futuro: la costruzione del futuro,
la certezza del futuro, proteggere il futuro, guardare con fiducia al
futuro, siamo proiettati nel futuro, un futuro degno del nostro passato.
Per realizzare questo,
grazie alla legittimazione del voto popolare (il termine delegittimazione
è invece più usato in riferimento alle istituzioni), Berlusconi si
assume il ruolo di protagonista (altra parola cara al suo
linguaggio) unico e indiscusso: gli intermediari (sindacati, movimenti,
associazioni) creano solo disturbo perché lui fa un patto, un
patto diretto con gli italiani che si trasforma televisivamente nella
nota firma del contratto con gli italiani. E patto è un’altra
parola estremamente ricorrente nel suo linguaggio: patto con gli
italiani, patto fra generazioni, patto fra cittadini e istituzioni,
patto sociale, patto fra stati.
Il metodo di lavoro sarà
perciò quello moderno ed efficiente dell’azienda: si
rispetta una agenda, ritmo e verifiche sono scadenzati, si
progetta la riconversione di determinati settori (della
diplomazia, per esempio), e si porta la funzionalità dello stato a
regime. Gli altri stati sono perciò visti come aziende
concorrenti nel mondo del mercato: il rapporto fra nazioni è
quindi spessissimo abbinato alla parola competizione (competizione
fra gli stati europei, scuola competitiva con quella degli altri stati,
competizione mondiale fra i paesi, fra nazioni della stessa area di
civilizzazione, fino ad affermare che la competizione è la molla
del progresso)
Il vecchio
“politichese” è evitato quanto più possibile: niente tecnicismi
politici e niente strutture sintattiche complesse che possano intaccare
l’idea di una realtà che deve apparire semplice, evidente per tutti
(fino quasi a far rimpiangere il vecchio “sinistrese” oggetto di
tante ironie per l’incertezza dei numerosi cioè, al limite, nella
misura in cui). Lo stile del discorso, tendendo sempre ad essere
rassicurante e tranquillo, è quanto mai tradizionale: l’uso e
l’abuso delle terne ritmiche (L'Europa ha vissuto mezzo secolo di
pace, di libertà e di prosperità; il patriottismo di chi è
solidale, di chi detesta l'intolleranza, di chi ama la libertà degli
altri come la propria; gli apparati di questo Stato, che sono
obsoleti, costosi e inefficienti; una scelta tra declino e
sviluppo, tra impoverimento e benessere, tra il rischio di un regime e
la certezza della libertà ecc.) conferisce ai discorsi una
sorta di stabilità che permette di sorvolare sul significato preciso
dei singoli elementi. Allo stesso modo numerose associazioni
nome-aggettivo molto scontate (svettanti simboli, operosa giornata,
sano realismo, sincera amicizia) ottengono un effetto fortemente
tranquillizzante per chi ascolta (con un esempio: se al telegiornale
sentissi che c’è stato un incidente terribile in autostrada, una
macchina si è accartocciata e dentro c’erano i genitori con due figli
piccoli e sono tutti morti, resterei giustamente colpito e sconvolto. Ma
se il giornalista dice che c’è stato un tragico incidente in
cui ha perso la vita un’intera famiglia, pur dispiaciuto
continuerò a pranzare o a fare quello che stavo facendo mentre guardavo
il telegiornale).
Nel parlato (ma non è una
novità di questi anni) si indulge poi spesso a formule estremamente
colloquiali (tirare a campare, passarsela bene, tirar su famiglia,
far bene, prendersi una bella croce, rimboccarsi le maniche) o
prestate dal linguaggio sportivo (squadra, giuoco, gara, cittadino di
serie B, guadagnare il centro del ring, mettere all’angolo, andare al
tappeto ecc). I termini specialistici sono banditi salvo che
in qualche formula di carattere economico sempre peraltro molto ben
comprensibile a tutti: livello di benessere, politica degli
investimenti, sviluppo. Anche le parole inglesi sono
selezionate fra quelle di uso più comune (lobby, convention, team)
con il vezzo a volte un po’ buffo della –s nei plurali (computers,
partners). L’unico cedimento a termini non intellegibili a tutti
Berlusconi se lo concede nell’ambito del suo campo più proprio,
quello del linguaggio degli affari. Qui non è raro trovare anche
vocaboli inglesi che non fanno parte del bagaglio culturale di molti
elettori: project financing, business friendly, il board di una
multinazionale, venture capital, followship e leadership, o
espressioni come vantaggi offerti dai diversi paesi in una logica di
concorrenza tra i diversi management.
L’immagine dell’Italia
(noi italiani siamo un autentico rompicapo per gli amici stranieri)
è infine descritta attraverso una retorica semplice ma efficace: città
pacifiche e operose, meravigliosa intelligenza mediterranea, cantiere di
lavori in corso, paese inaffondabile dove la donna è il cardine
assoluto della famiglia, dove i giovani sono i nostri giovani,
i giovani figli dell’Italia a cui bisogna garantire il
futuro, dove non ci sono poveri, disoccupati o handicappati, ma solo
persone meno fortunate, indigenti o più semplicemente
quelli che sono rimasti indietro.
In
conclusione mi pare di poter dire che la lingua e lo stile di Berlusconi
niente di nuovo hanno portato dal punto di vista strutturale (le armi
retoriche e lo stile del discorso non sono diversi da quelli di altri
politici del presente o del passato). Dal punto di vista lessicale c’è
invece l’introduzione e la promozione di un vocabolario semplice come
quello della televisione, ma colorato da espressioni proprie del
linguaggio degli affari che caratterizzano il Berlusconi-imprenditore.
Unica vera novità è invece la commistione fra vecchia retorica e
tecniche di promozione commerciale, una fusione cioè fra informazione e
pubblicità: le frasi chiave, i concetti caratterizzanti la politica del
governo, le idee di maggiore impatto, sono ripetute, diffuse e
promosse in modo sistematico così come gli slogan della pubblicità o
come un tormentone teatrale: si può essere a favore o contro la
politica del centro-destra, ma il suo marchio è penetrato nel nostro
bagaglio linguistico culturale né più né meno di vecchi slogan (slogans?)
della Lavazza o del Dash.
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