detonatore che da troppo tempo ha voglia di
scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come
l'ho vissuta io, quest'Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza.
Incomincerò dunque da quella. Ero a casa, la mia casa è nel centro di
Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse
non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova
alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti
la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta
accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L'ho respinta. Non ero mica
in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin
dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York,
perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione
ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al
mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l'audio non funzionava. Lo
schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi
una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero.
Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo
mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre
mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco,
grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva
verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull'obiettivo, si getta
sull'obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello stesso
momento l'audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute,
selvagge. «God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio!
Dio, Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è infilato nella seconda torre come un
coltello che si infila dentro un panetto di burro.
Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei
quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il
mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla
prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si
buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio.
Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci
si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così
lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell'aria. Sì,
sembravano nuotare nell'aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani,
però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti,
quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine
cadevano a sasso e paf! Sai, io credevo d'aver visto tutto alle guerre. Dalle
guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più.
Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho
sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l'ho mai vista la gente che
muore ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d'un
ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre
visto roba che scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran
fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha
inghiottito se stessa. La seconda s'è fusa, s'è sciolta. Per il calore s'è
sciolta proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto,
o m'è parso, in un silenzio di tomba. Possibile? C'era davvero, quel
silenzio, o era dentro di me?
Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di
morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo,
quattrocento. Come a Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento è finito,
gli americani si son messi a raccattarli, contarli, non credevo ai miei occhi.
Nella strage di Mexico City, quella dove anch'io mi beccai un bel po' di
pallottole, di morti ne raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi morta
mi scaraventarono nell'obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai intorno e
addosso mi sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi
cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad evacuare. Gli
ascensori non funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi
piani ci voleva un'eternità. Fiamme permettendo. Non lo conosceremo mai, il
numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?). Gli americani non lo
diranno mai. Per non sottolineare l'intensità di questa Apocalisse. Per non
dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E poi le
due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di creature son troppo
profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un
naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e
invece è materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si
polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma
sono rimasti inutilizzati.
Che cosa sento per i kamikaze che
sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà. Io che
in ogni caso finisco sempre col cedere alla pietà. A me i kamikaze cioè i tipi
che si suicidano per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici,
incominciando da quelli giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai
considerati Pietri Micca che per bloccar l'arrivo delle truppe nemiche danno
fuoco alle polveri e saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai
considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e
sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972. (Ossia quando lo
intervistai ad Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano anche i
terroristi della Baader-Meinhof). Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece
di cercar la gloria attraverso il cinema o la politica o lo sport la cercano
nella morte propria e altrui. Una morte che invece del Premio Oscar o della
poltrona ministeriale o dello scudetto gli procurerà (credono) ammirazione. E,
nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel Paradiso di cui parla il
Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì. Scommetto che sono vanesi
anche fisicamente. Ho sotto gli occhi la fotografia dei due kamikaze di cui
parlo nel mio «Insciallah»: il romanzo che incomincia con la distruzione della
base americana (oltre quattrocento morti) e della base francese (oltre
trecentocinquanta morti) a Beirut. Se l'erano fatta scattare prima d'andar a
morire, quella fotografia, e prima d'andar a morire erano stati dal barbiere.
Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata,
che basette civettuole...
Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui
non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di
opinione che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su di lui
espressi nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non gli ho mai
perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente
presentatosi a lui come «mio amico», si sia ritrovato con una rivoltella
puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo
incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul
muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i
martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati in bombe
umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata dentro la
seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che
lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri
sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i
passeggeri del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è
schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per
loro sì che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che
ora fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa,
afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella
sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho
ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con
gli Arafat mi viene la febbre.
Preferisco parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano
all'America. Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è
democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero,
non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i
massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre
regioni d'Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i
paesi non democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato
e finanziato e aiutano i terroristi. L'Unione Sovietica, i paesi satelliti
dell'Unione Sovietica e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi,
l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa
Arabia Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente
l'Afghanistan, e tutte le regioni musulmane dell'Africa. Negli aeroporti e sugli
aerei di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che
dorme. L'unica cosa che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei
terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre
sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura
nervosa. E a New York, due volte nervosa. (A Washington, no. Devo ammetterlo.
L'aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non
è mai stato un problema di «se»: è sempre stato un problema di «quando».
Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella
inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente
alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le tre
domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l'audio non funzionava,
ci fosse quella sull'attentato? E perché credi che appena apparso il secondo
aereo abbia capito? Poiché l'America è il Paese più forte del mondo, il più
ricco, il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel
tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell'America nasce
proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua
modernità. La solita storia del cane che si mangia la coda.
Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo
rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni
di americani sono arabi-musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed viene
diciamo dall'Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di
frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli
proibisce d'iscriversi a un'Università (cosa che spero cambi) per studiare
chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra
batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah
dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell'acqua e
scateni una strage. (Dico «se» perché stavolta il governo non ne sapeva un
bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni
limite. Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate
nei posteriori per cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale.
Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della
modernità americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e
l'hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono.
La sua scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli impressionanti, così alti,
così belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini
palazzi del nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano
come un tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli
aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la
guerra aerea l'hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino all'isteria). Quel
Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella
scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in
pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra
millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il
reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei,
con la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più
in questo tristo ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché
corteggiare le principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a
Beirut quando aveva vent’anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di
Maometto e di Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai
guadagni d'una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un
esperto demolitore. La demolizione è una specialità americana.
Quando ci siamo incontrati t'ho
visto quasi stupefatto dall'eroica efficienza e dall'ammirevole unità con cui
gli americani hanno affrontato quest'Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti
che le vengono continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma
quelli dell’Europa e in particolare dell’Italia sono ancora più gravi),
l'America è un paese che ha grosse cose da insegnarci. E a proposito
dell'eroica efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di New York.
Quel Rudolph Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in ginocchio.
Perché ha un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa fare bella
figura dinanzi al mondo intero. E’ un grande anzi grandissimo sindaco,
Rudolph Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno
incominciando da se stessa. E' un sindaco degno d'un altro grandissimo sindaco
col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci
dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la
cenere sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si
fa?». Lui non delega i suoi doveri al prossimo, no. Non perde tempo nelle
bischerate e nelle avidità. Non si divide tra l'incarico di sindaco e quello
di ministro o deputato. (C'è nessuno che mi ascolta nelle tre città di
Stendhal, insomma a Napoli e a Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e
subito entrato nel secondo grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere
con gli altri. S'è salvato per un pelo e per caso. E nel giro di quattro
giorni ha rimesso in piedi la città. Una città che ha nove milioni e mezzo
di abitanti, bada bene, e quasi due nella sola Manhattan. Come abbia fatto,
non lo so. E' malato come me, pover'uomo. Il cancro che torna e ritorna ha
beccato anche lui. E, come me, fa finta d’essere sano: lavora lo stesso. Ma
io lavoro a tavolino, perbacco, stando seduta! Lui, invece... Sembrava un
generale che partecipa di persona alla battaglia. Un soldato che si lancia
all'attacco con la baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le
maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui.
Gente senza boria e senza pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle.
Quanto all'ammirevole capacità di unirsi, alla compattezza quasi marziale con
cui gli americani rispondono alle disgrazie e al nemico, bè: devo ammettere
che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì, che era esplosa al tempo di
Pearl Harbor, cioè quando il popolo s'era stretto intorno a Roosevelt e
Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di Hitler e l'Italia di
Mussolini e il Giappone di Hirohito. L'avevo annusata, sì, dopo l'assassinio
di Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam, la lacerante
divisione causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo senso ciò mi aveva
ricordato la loro Guerra Civile d'un secolo e mezzo fa. Così, quando ho visto
bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto
democratici e repubblicani cantare abbracciati «God save America, Dio salvi
l'America», quando gli ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta
di stucco. Lo stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non
ho mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate
fiducia nel nostro presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono
state ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato di
New York. Lo stesso, quando sono state reiterate da Lieberman, l'ex candidato
democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore è rimasto
squallidamente zitto). E lo stesso quando il Congresso ha votato all'unanimità
d'accettare la guerra, punire i responsabili. Ah, se l'Italia imparasse questa
lezione! È un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato
dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all'interno dei partiti, in
Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema,
lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano
che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria
gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Pei propri interessi
personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io
sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la
Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l'opposizione darebbe la colpa al governo.
E il governo darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia del governo e i
capoccia dell'opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò
lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza
gli americani.
Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel
che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai (e le
operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di salvare qualche
superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito. Senza cedere,
tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno ti rispondono:
«I can allow myself to be exhausted not to be defeated. Posso permettermi
d'essere esausto, non d'essere sconfitto». Tutti. Giovani, giovanissimi,
vecchi, di mezz'età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L'avete visti o
no? Mentre Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine
americane, alzare il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa!
Usa! Usa!». In un paese totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l'ha
organizzata bene il Potere!». In America, no. In America queste cose non le
organizzi. Non le gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli
disincantata come New York, e con operai come gli operai di New York. Sono
tipacci, gli operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono
neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la
Patria... In inglese la parola Patria non c'è. Per dire Patria bisogna
accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra Madre.
Native Land, Terra Nativa. O dire semplicemente My Country, il Mio Paese. Però
il sostantivo Patriotism c'è. L'aggettivo Patriotic c'è. E a parte la
Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico dell'America. Ah!
Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che stringendo il pugno e
sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno
glielo ordinasse. E ho provato una specie di umiliazione. Perché gli operai
italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io non li so
immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho visto sventolare tante bandiere
rosse. Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho
sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da
una sinistra arrogante e devota all'Unione Sovietica, le bandiere tricolori le
hanno sempre lasciate agli avversari. E non è che gli avversari ne abbiano
fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli
che vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la camicia verde e la
cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i colori del tricolore.
Mi-sun-lumbard, mi-sun-lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra
Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera italiana la vedi soltanto alle
Olimpiadi se per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto negli
stadi, quando c'è una partita internazionale di calcio. Unica occasione,
peraltro, in cui riesci a udire il grido Italia-Italia.
Eh! C'è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria
viene sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale viene
sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili operai che
scavano nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche naso delle
creature massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere quel caffè
macinato.
Il fatto è che
l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser
gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. Lo è
perché è nato da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, e
dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea della Libertà,
anzi della libertà sposata all'idea di uguaglianza. Lo è anche perché a quel
tempo l'idea di libertà non era di moda. L'idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne
parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi
che in un costosissimo librone a puntate detto l'Encyclopedie, questi concetti.
E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi e i
signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano
ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica roba da
mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della
Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata nel
1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776.
(Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene
ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).
È un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea venne
capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle
colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader
straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding
Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i
Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i
George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li
chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e
isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre!
Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli
insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo
conosceranno mai. Tipi che in greco s'eran letti Aristotele e Platone, che in
latino s'eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia greca
se l'eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria
del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche
l'italiano. (Lui diceva «toscano»). In italiano parlava e leggeva con gran
speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo
e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino
Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d'un libro scritto da un certo
Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto
all'autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore,
scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura
elettrica del fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu
con questi leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i
contadini spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono all'Inghilterra.
Fecero la guerra d'indipendenza, la Rivoluzione Americana.
Bè... Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni
guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione
Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La
fecero con un foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una
patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata
all'uguaglianza. La Dichiarazione d'Indipendenza. «We hold these Truths to be
self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono
creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che
tra questi Diritti v'è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della
Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i
governi...». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli
abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la
spina dorsale dell'America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché?
Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo.
Perché la invita anzi le ordina di governarsi, d'esprimere le proprie
individualità, di cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che
il comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi,
arricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il
comunismo è un regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto
tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è
più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe
il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame.
Bè, secondo me l'America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America.
Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi.
Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi
piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor
della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il
buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad
esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d'Inghilterra sembra
chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più
forte, di più potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la
Plebe Riscattata. E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti.
Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se
le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a
patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una
visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President,
bienvenu!». Il guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di
Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto
dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una
mano.
Non sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle
macerie e ridacchiano bene-agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle
persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza
e nel dubbio. E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete
dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti (parola oltretutto
impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non
capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia.
Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non
capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e
dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di
religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non
mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla
conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della
nostra civiltà. All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del
nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e
vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non
ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E
distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a
migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura
non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la
nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo!
Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere
voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la
barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate
la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa
vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i
calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi,
perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v'importa
neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione
di lasciarmi ammazzare perché lo sono.
Da vent'anni lo dico, da vent'anni. Con una certa mitezza, non con questa
passione, vent'anni fa su questa roba scrissi un articolo di fondo per il
«Corriere». Era l'articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze
e tutti i credi, d'una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte
le intolleranze, d'una laica senza tabù. Ma era anche l'articolo di una persona
indignata con chi non sentiva il puzzo di una Guerra Santa a venire, e ai figli
di Allah gliene perdonava un po' troppe. Feci un ragionamento che suonava press'appoco
così, vent'anni fa. «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso
ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando loro disprezzano la
nostra? Io voglio difendere la nostra, e v'informo che Dante Alighieri mi piace
più di Omar Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero. «Razzista, razzista!».
Eh, furono gli stessi progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a
crocifiggermi. Del resto quell'insulto me lo presi anche quando i sovietici
invasero l'Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana e il turbante che
prima di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio, berciavano le lodi
del Signore? «Allah akbar! Allah akbar!». Io li ricordo bene. E a veder
accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi. Mi pareva
d'essere nel Medioevo, e dicevo: «I sovietici sono quello che sono. Però
bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li
ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista, razzista!». Nella loro cecàggine non
volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah
commettevano sui militari fatti prigionieri. (Gli segavano le braccia e le
gambe, rammenti? Un vizietto a cui s'erano già abbandonati in Libano coi
prigionieri cristiani ed ebrei). Non volevano che lo dicessi, no. E pur di fare
i progressisti applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura
dell’Unione Sovietica riempivan di armi l'eroico-popolo-afghano. Addestravano
i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden. Via-i-russi-dall'Afghanistaaaan!
I-russi- devono-andarsene-dall'Afghanistaaaan! Bè, i russi se ne sono andati
dall'Afghanistan: contenti? E dall'Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama
Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani egiziani iracheni
libanesi palestinesi sauditi che componevano la banda dei diciannove kamikaze
identificati: contenti? Peggio: ora qui si discute sul prossimo attacco che ci
colpirà con le armi chimiche, biologiche, radioattive, nucleari. Si dice che la
nuova strage è inevitabile perché l’Iraq gli fornisce il materiale. Si parla
di vaccinazioni, di maschere a gas, di peste. Ci si chiede quando avverrà...
Contenti?
Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto
l'America è lontana, tra l'Europa e l'America c'è un oceano... Eh, no, cari
miei. No. C'è un filo d'acqua. Perché quando è in ballo il destino
dell'Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi.
L'America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi
austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi
belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l'America, crolla
l'Europa. Crolla l'Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario
cioè nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una volta, ero giovane e
ingenua, dissi ad Arthur Miller: «Gli americani misurano tutto coi soldi, non
pensano che ai soldi». E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»). In tutti i
sensi crolliamo, caro mio. E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al
posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte
di cammella. Neanche questo capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha
capito. È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli
inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una
solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare.
Chirac, no. Come sai la scorsa settimana era qui in visita ufficiale.
Una visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha visto le macerie delle
due torri, ha saputo che i morti sono un numero incalcolabile anzi
inconfessabile, ma non s'è sbilanciato. Durante l'intervista alla Cnn ben
quattro volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e in
qual misura intendesse schierarsi contro questa Jihad, e per quattro volte
Chirac ha evitato una risposta. È sgusciato via come un'anguilla. Veniva voglia
di gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo sbarco in Normandia? Lo sa
quanti americani sono crepati in Normandia per cacciare i nazisti anche dalla
Francia?». Escluso Blair, del resto, neanche fra gli altri europei vedo
Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne vedo in Italia dove il governo non ha
individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin
Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio! Malgrado la paura della guerra, in ogni
paese d'Europa è stato individuato e arrestato qualche complice di Usama Bin
Laden. In Francia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna... Ma in Italia dove
le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che
inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la
Cupola di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno. Mi spieghi, signor
cavaliere: son così incapaci i Suoi poliziotti e carabinieri? Son così
coglioni i Suoi servizi segreti? Son così scemi i Suoi funzionari? E son tutti
stinchi di santo, tutti estranei a ciò che è successo e succede, i figli di
Allah che ospitiamo? Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare
chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei teme di subire il solito
ricatto razzista-razzista? Io, vede, no.
Cristo! Io non nego a nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura della
guerra è un cretino. E chi vuol far credere di non avere paura alla guerra,
l’ho scritto mille volte, è insieme un cretino e un bugiardo. Ma nella Vita e
nella Storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura. Casi in cui aver
paura è immorale e incivile. E quelli che, per debolezza o mancanza di coraggio
o abitudine a tenere il piede in due staffe si sottraggono a questa tragedia, a
me sembrano masochisti.
Masochisti, sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che
tu chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà
fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se
fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro
la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate, c'è Platone, c'è Aristotele, c'è
Fidia, perdio. C'è l'antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta della
Democrazia. C'è l'antica Roma con la sua grandezza, le sue leggi, il suo
concetto della Legge. Le sue sculture, la sua letteratura, la sua architettura.
I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue
strade. C'è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato
(e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell'amore e della
giustizia. C'è anche una Chiesa che mi ha dato l'Inquisizione, d'accordo. Che
mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, d'accordo. Che mi ha oppresso
per secoli, che per secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e
Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha
zittito. Però ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o
no? E poi dietro la nostra civiltà c'è il Rinascimento. C'è Leonardo da
Vinci, c'è Michelangelo, c'è Raffaello, c’è la musica di Bach e di Mozart e
di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella
musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o
supposta cultura è proibita. Guai se fischi una canzonetta o mugoli il coro del
Nabucco. E infine c'è la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie
malattie e le cura. Io sono ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza:
non quella di Maometto. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il
treno, l'automobile, l'aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su
Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di
questo pianeta con l'elettricità, la radio, il telefono, la televisione, e a
proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire ciò che ho
appena detto?!? Dio, che bischeri! Non cambieranno mai. Ed ora ecco la fatale
domanda: dietro all’altra cultura che c’è?
Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi
suoi meriti di studioso. (I Commentari su Aristotele eccetera), Arafat ci trova
anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo
coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla
mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e
la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si
smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la
matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli
adopriamo, e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte
le antiche civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto,
tra i Maya... I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che
qualche bella moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono
le scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei
con la Torah. E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo Corano.
Davvero pregi? Dacché i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli
esperti dell'Islam non fanno che cantarmi le lodi di Maometto: spiegarmi che il
Corano predica la pace e la fratellanza e la giustizia. (Del resto lo dice anche
Bush, povero Bush. E va da sé che Bush deve tenersi buoni i ventiquattro
milioni di americani-musulmani, convincerli a spifferare quel che sanno sugli
eventuali parenti o amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden). Ma allora come
la mettiamo con la storia dell'Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente? Come la
mettiamo con la faccenda del chador anzi del velo che copre il volto delle
musulmane, sicché per dare una sbirciata al prossimo quelle infelici devon
guardare attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi? Come la
mettiamo con la poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei
cammelli, che non debbano andare a scuola, non debbano andare dal dottore, non
debbano farsi fotografare eccetera? Come la mettiamo col veto degli alcolici e
la pena di morte per chi li beve? Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra
mica tanto giusto, tanto fraterno, tanto pacifico.
Ecco dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture. Al
mondo c'è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli
pare. E se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador
anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all'altezza degli
occhi, peggio per loro. Se son così scimunite da accettar di non andare a
scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro.
Se son così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio
per loro. Se i loro uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino,
idem. Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel
concetto di libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è
vario». Ma se pretendono d'imporre le stesse cose a me, a casa mia... Lo
pretendono. Usama Bin Laden afferma che l'intero pianeta Terra deve diventar
musulmano, che dobbiamo convertirci all'Islam, che con le buone o con le cattive
lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci. E
questo non può piacerci, no. Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar
le carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la
morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia,
ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno
dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre
città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della
tecnologia. Quella tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata
è in atto da tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da una fede
e da una perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada
quando gestiva l'Inquisizione. Infatti trattare con loro è impossibile.
Ragionarci, impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un
suicidio. E chi crede il contrario è un illuso.
***
Te lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha conosciuto abbastanza bene in
Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia, in
Giordania, in Libano, e a casa sua. Cioè in Italia. Lo ha conosciuto, ed anche
attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto raggelanti conferme.
Io non dimentico mai quel che mi accadde all'ambasciata iraniana di Roma quando
chiesi il visto per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi presentai
con le unghie smaltate di rosso. Per loro, segno di immoralità. Mi trattarono
come una prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di levarlo
immediatamente quel rosso. E se non gli avessi detto anzi urlato che cosa
gradivo levare, anzi tagliare a loro... Non dimentico nemmeno quel che mi
accadde a Qom, la città santa di Khomeini, dove in quanto donna venni respinta
da tutti gli alberghi. Per intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per
mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per togliermi i blue jeans
dovevo appartarmi, e naturalmente avrei potuto effettuare l'operazione
nell'automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma l'interprete me lo
impedì. Lei-è-pazza, lei-è-pazza, a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati.
Preferì portarmi all'ex Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci
prestò l'ex Sala del Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare
alla luce il Bambin Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata
dall'asino e dal bue. Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il Corano
vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d'un tratto la porta si
aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe strillando
vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v'era solo un modo per non finire
fucilati: sposarsi. Firmare l'atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi) che
il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che l'interprete aveva una
moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla disposta ad accettare la
poligamia, e io non volevo sposare nessuno. Tantomeno un iraniano con la moglie
spagnola e nient'affatto disposta ad accettare la poligamia. Nel medesimo tempo
non volevo finir fucilata ossia perdere l'intervista con Khomeini. In tal
dilemma mi dibattevo e...
Ridi, ne son certa. Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di questo
episodio non te lo racconto. Per farti piangere ti racconto quello dei dodici
giovanotti impuri che finita la guerra del Bangladesh vidi giustiziare a Dacca.
Li giustiziarono sul campo dello stadio di Dacca, a colpi di baionetta nel
torace o nel ventre, e alla presenza di ventimila fedeli che dalle tribune
applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah akbar, Allah akbar». Lo so, lo
so: nel Colosseo gli antichi romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura
va fiera, si divertivano a veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni. Lo
so, lo so: in tutti i paesi d'Europa i cristiani, quei cristiani ai quali
malgrado il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del
Pensiero, si divertivano a veder bruciare gli eretici. Però è trascorso
parecchio tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i figli di
Allah dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno. Dopo i dodici
giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello condannato
a morte s'era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la testa con gli
scarponi da militare. E se non ci credi, bè: rileggi la mia cronaca o la
cronaca dei giornalisti francesi e tedeschi che inorriditi quanto me erano lì
con me. Meglio: guardati le fotografie che uno di essi scattò. Comunque il
punto che mi preme sottolineare non è questo. È che, concluso lo scempio, i
ventimila fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero nel campo. Non in
maniera scomposta, cialtrona, no. In maniera ordinata, solenne. Lentamente
composero un corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre
tuonando Allah-akbar, Allah-akbar. Li distrussero come le due Torri di New York.
Li ridussero a un tappeto sanguinolento di ossa spiaccicate.
Oh, potrei continuare all'infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti rizzare
i capelli in testa. Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che dopo
l'intervista tenne un comizio a Qom per dichiarare che io lo accusavo di
tagliare i seni alle donne. Da tale comizio ricavò un video che per mesi venne
trasmesso alla televisione di Teheran sicché, quando l'anno successivo tornai a
Teheran, venni arrestata appena scesa dall'aereo. E la vidi brutta, sai, proprio
brutta. Era il periodo degli ostaggi americani... potrei parlarti di quel Mujib
Rahman che, sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in
quanto europea pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un
colonnello inglese mi salvò. O di quel palestinese di nome Habash che per venti
minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato alla testa. Dio, che gente! I
soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì Bhutto
cioè il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché troppo amico
dell’Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein. Ma quei due erano
musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti la conclusione del mio
ragionamento. Una conclusione che non piacerà a molti, visto che difendere la
propria cultura, in Italia, sta diventando peccato mortale. E visto che
intimiditi dall’impropria parola «razzista», tutti tacciono come conigli.
Io non vado a rizzare tende alla
Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di
Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a
fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa
dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d'essere un'ospite e una
straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che
per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso
rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango
qualche loro regola o superstizione. E questo urlo di dolore e di sdegno io te
l'ho scritto avendo dinanzi agli occhi immagini che non sempre mi davano le
apocalittiche scene con le quali ho incominciato il discorso. A volte invece
di quelle vedevo l'immagine per me simbolica (quindi infuriante) della gran
tenda con cui un'estate fa i mussulmani somali sfregiarono e smerdarono e
oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia città.
Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che
li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per
l’Europa e non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti.
Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i
parenti dei parenti. Una tenda situata accanto al bel palazzo
dell'Arcivescovado sul cui marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che
nei loro paesi allineano fuori dalle moschee. E insieme alle scarpe o le
ciabatte, le bottiglie vuote dell'acqua con cui si lavavano i piedi prima
della preghiera. Una tenda posta di fronte alla cattedrale con la cupola del
Brunelleschi, e a lato del Battistero con le porte d'oro del Ghiberti. Una
tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie, tavolini,
chaise-longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli per cuocere il
cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo. E, grazie alla consueta
incoscienza dell'Enel che alle nostre opere d'arte tiene quanto tiene al
nostro paesaggio, fornita di luce elettrica. Grazie a un radio-registratore,
arricchita dalla vociaccia sguaiata d'un muezzin che puntualmente esortava i
fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono delle campane. Insieme a
tutto ciò, le gialle strisciate di urina che profanavano i marmi del
Battistero. (Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come
facevano a colpire l'obiettivo separato dalla ringhiera di protezione e quindi
distante quasi due metri dal loro apparato urinario?) Con le gialle strisciate
di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone di San Salvatore al
Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle spalle di
piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in cacatoio. Lo
sai bene.
Lo sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere»,
ricordi? Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a
casa mia. Mi ascoltò, mi dette ragione. «Ha ragione, ha proprio ragione...».
Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì. Chiamai anche il
ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei fiorentini che
parlano con l'accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella faccenda. E
pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha
ragione, sì». Ma per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli
di Allah che urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo,
presto li accontentò. (Mi risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le
sorelle e gli zii e le zie e i cugini e le cognate incinte ora stiano dove
volevano stare). Cioè a Firenze e in altre città d’Europa. Allora cambiai
sistema. Chiamai un simpatico poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza e gli
dissi: «Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una
cosa, la faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se
entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore
che la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a
impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le
manette. Così finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente
degli altri, nel giro di poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase
soltanto un'immensa e disgustosa macchia di sudiciume. Però fu una vittoria
di Pirro. Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da
anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell'arte e della cultura
e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti
della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini,
i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio
della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano. Eh, sì:
sono tutti dov'erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il
piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi alla Loggia
dell'Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca
Nazionale, all'entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si
pigliano a coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e
ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse). Sul
sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i
liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa
estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un'antica
signora. E va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno
sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali). Nelle storiche strade dove
bivaccano col pretesto di vender-la-merce. Per merce intendi borse e valige
copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi illegali, gigantografie,
matite, statuette africane che i turisti ignoranti credono sculture del
Bernini, roba-da-annusare. («Je connais mes droits, conosco i miei diritti»
mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto vendere la
roba-da-annusare). E guai se il cittadino protesta, guai se gli risponde
quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua. «Razzista, razzista!». Guai se
camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone gli sfiora la
presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se un Vigile
Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah, Eccellenza, le
dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?». Se lo
mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la
mamma e la progenie. «Razzista, razzista!». E la gente sopporta, rassegnata.
Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il
fascismo: «Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l'avete un po'
d'orgoglio, pecoroni?».
Succede anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino
che fece l'Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana. Sembra
Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia. Quella Venezia dove i
piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la «merce»
e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova. Quella Genova dove i
meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da loro
e deperiscono come belle donne stuprate. A Roma. Quella Roma dove il cinismo
della politica d'ogni menzogna e d'ogni colore li corteggia nella speranza
d'ottenerne il futuro voto, e dove a proteggerli c'è lo stesso Papa. (Santità,
perché in nome del Dio Unico non se li prende in Vaticano? A condizione che
non smerdino anche la Cappella Sistina e le statue di Michelangelo e i dipinti
di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son io che non capisco. Anziché
figli-di-Allah in Italia li chiamano «lavoratori stranieri». Oppure «mano-d'opera-di-cui-v'è-bisogno».
E sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son
diventati talmente signorini. Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New
York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale's. Si vergognano a fare gli
operai e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato. Ma quelli
di cui parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno? In che modo suppliscono
al bisogno della mano d'opera che l'ex proletariato italiano non fornisce più?
Bivaccando nella città col pretesto della merce-da-vendere? Bighellonando e
deturpando i nostri monumenti? Pregando cinque volte al giorno? E poi c'è
un'altra cosa che non capisco. Se davvero son tanto poveri, chi glieli dà i
soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? Chi
glieli dà i dieci milioni a testa (come minimo dieci milioni) necessari a
comprarsi il biglietto? Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo
d’avviare una conquista che non è solo una conquista di anime, è anche una
conquista di territorio?
Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i
nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c'è nessuno
che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuol
mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova
Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio. E sbaglia chi
questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo. Sbaglia, soprattutto,
chi paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta sull'Italia e sull'Europa
con l'ondata migratoria che si rovesciò sull'America nella seconda metà
dell'Ottocento anzi verso la fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento.
Ora ti dico perché.
Non molto tempo fa mi capitò di
captare una frase pronunciata da uno dei mille presidenti del Consiglio di cui
l'Italia s'è onorata in pochi decenni. «Eh, anche mio zio era un emigrante!
Io lo ricordo mio zio che con la valigetta di fibra partiva per l'America!».
O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No. Non è affatto la stessa cosa. E
non lo è per due motivi abbastanza semplici.
Il primo è che nella seconda metà dell'Ottocento l'ondata migratoria in
America non avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi la
effettuava. Furono gli americani stessi a volerla, sollecitarla. E per un
preciso atto del Congresso. «Venite, venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se
venite, vi si regala un bel pezzo di terra». Ci hanno fatto anche un film,
gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole Kidman, e del quale m'ha colpito
il finale. La scena dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina
bianca sul terreno che diventerà loro, sicché solo i più giovani e i più
forti ce la fanno. Gli altri restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa
muoiono. Ch’io sappia, in Italia non c'è mai stato un atto del Parlamento
che invitasse anzi sollecitasse i nostri ospiti a lasciare i loro paesi.
Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi,
se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti. Da noi ci sono venuti di
propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che
cercavano di rimandarli indietro. Più che d’una emigrazione s’è trattato
dunque d’una invasione condotta all’insegna della clandestinità. Una
clandestinità che disturba perché non è mite e dolorosa. È arrogante e
protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari tutti e due.
Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i clandestini
riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei
volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che
mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi
sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata
dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si
nascondono». Stronzi! In quelle piazze ve n’erano migliaia, e non si
nascondevano affatto. Per rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila,
prego-gentile-signore-s’accomodi, e accompagnarli ad un porto od aeroporto.
Il secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo
capirebbe anche uno scolaro delle elementari. Per esporlo bastano un paio di
elementi. Uno: l’America è un continente. E nella seconda metà
dell’Ottocento cioè quando il Congresso Americano dette il via
all’immigrazione, questo continente era quasi spopolato. Il grosso della
popolazione si condensava negli stati dell’Est ossia gli stati dalla parte
dell’Atlantico, e nel Mid-West c’era ancora meno gente. La California era
quasi vuota. Beh, l’Italia non è un continente. È un paese molto piccolo e
tutt’altro che spopolato. Due: l’America è un paese assai giovane. Se
pensi che la Guerra d’Indipendenza si svolse alla fine del 1700, ne deduci
che ha appena duecento anni e capisci perché la sua identità culturale non
è ancora ben definita. L’Italia, al contrario, è un paese molto vecchio.
La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua identità culturale è
quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non prescinde da una religione
che si chiama religione cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa
Cattolica. La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c'entro.
C'entro, ahimé c'entro. Che mi piaccia o no, c'entro. E come farei a non
entrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne,
Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della
campane. Le campane di Santa Maria del Fiore che all'Epoca della Tenda la
vociaccia sguaiata del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel
paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella musica e quel paesaggio
che ho imparato cos'è l'architettura, cos'è la scultura, cos'è la pittura,
cos'è l'arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato
a chiedermi cos'è il Bene, cos'è il Male, e perdio...
Ecco: vedi? Ho scritto un'altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo,
tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa
addirittura parte del mio modo d'esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio,
perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così
spontanee, queste parole, che non m'accorgo nemmeno di pronunciarle o di
scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non abbia mai
perdonato le infamie che m'ha imposto per secoli incominciando
dall'Inquisizione che m'ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi
preti io non ci vada proprio d'accordo e delle loro preghiere non sappia
proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il
cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o
scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i
conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi
ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle
sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il
cimitero della mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di
tutte le religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia
prozia, evangelica. La bisnonna valdese non l'ho conosciuta. La prozia
evangelica, invece, sì. Quand'ero bambina mi portava sempre alle funzioni
della sua chiesa in via de' Benci a Firenze, e... Dio, quanto m'annoiavo! Mi
sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel
prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non
mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito aveva un gran
crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente incenso... Mi
mancava perfino il puzzo dell'incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina
basilica di Santa Croce dove queste cose c'erano. Le cose cui ero abituata. E
aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v'è una minuscola cappella.
Sta sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte
ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido,
e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio
mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande
maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò
Berlinguer).
Santiddio! (Ci risiamo). Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle
condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio
di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di
respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e
molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un' ondata
migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare
il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c'è
posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto
Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché
equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo,
Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o
male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io
l'Italia non gliela regalo.
Io sono italiana. Sbagliano gli
sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l'ho
mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity
Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: «Sir, io all'America sono
assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono
profondamente legata. L'America è per me un amante anzi un marito al quale
resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a
questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la
guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che se
non avesse tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio
bene e m'è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New
York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica
con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così
generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l'America è sempre stata
il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l'ho già,
Sir. La mia Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia mamma. Sir, io amo
l'Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la
cittadinanza americana». Gli risposi anche che la mia lingua è l'italiano,
che in italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta. Nello stesso
spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una lingua straniera.
E poi gli risposi che quando ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire
quel Fratelli-d'Italia, l'Italia-s'è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene
il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino. Penso
solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a
guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola. Teppisti degli stadi a
parte, s'intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell'Ottocento.
Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al
centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II
e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l'Unità d'Italia non
l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro. La custodisco come un gioiello.
Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati.
Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci
abbiamo fatto il Risorgimento, col quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la
guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno
Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da
un razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni
pena dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato
e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera
famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io. Nelle file di Giustizia e
Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni. Quando l'anno
dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi
sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni
informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle
o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la
Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi
ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline.
Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia
godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in
pensione prima dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze
all'estero o le partite di calcio. L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle
piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood
venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin
Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra
caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene.
L'Italia squallida, imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e incapaci
che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi
posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro
o di sindaco. L'Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti
inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i
fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è
nemmeno l'Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la
consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori
di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»).
Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano
nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel
vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di
ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali, chi
era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio, chi era
Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla spenta e la
lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte
degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare le
bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi.
Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi
appunti mi odieranno per aver scritto la verità. Tra una spaghettata e
l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai loro protetti
cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia è un'Italia ideale. È
l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito
Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un'Italia
seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E
quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o
insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la
invade. Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci
di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden,
per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.
Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t'avverto: non
chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane.
Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno
ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito. Ma ora devo
rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.
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