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DUE TIPI DI POLITICAL CORRECTNESS

di Roberto Tartaglione

 

Perché la battaglia per una sana “correttezza politica”
nella comunicazione è forse definitivamente persa

 

Per political correctness si intende un modo di esprimersi e di comportarsi rispettoso degli altri, dell’etnia, della religione, del genere, dell’orientamento politico o di quello sessuale e anche dell’età o di eventuali disabilità fisiche. Un comportamento che insomma non sia pregiudizievole e quindi “discriminatorio”. Si tratta in fondo di una una forma di “educazione civica” peraltro tutelata dalla Costituzione che recita all’articolo 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Anche volendo accettare l’anglismo, accettazione che si badi bene prevede comunque l’accettazione di un modello culturale estraneo, c’è però da domandarsi: come mai una logica perfino banale, quella di attribuire al political correctness almeno due dimensioni, la moderata (opportuna e liberal) e l’estremista (neopuritana e censoria) trova tanta difficoltà ad affermarsi?
Pur senza dati statistici alla mano ci sembra probabile che la maggior parte  delle persone possa condividere i principi del political correctness moderato (per esempio femminilizzare i nomi di professioni una volta riservate ai maschi o evitare nell’informazione di caratterizzare etnicamente il colpevole di un reato ecc.). E nello stesso tempo speriamo e crediamo che la maggior parte delle persone sia contraria al neopuritanesimo  di chi si arroga il ruolo di supremo arbitro del bene e del male e censura i nomi di Ping, Pong e Pang nella Turandot di Puccini sostituendoli con Jim, Bob e Bill per non offendere la cultura cinese, modifica la Carmen di Bizet perché non dia alibi al femminicidio, trasforma le favole i cui protagonisti non corrispondono a modelli pedagogici di ultima generazione, stabilisce attraverso pseudo-algoritmi (il test di Bechdel) il grado di sessimo di un’opera cinematografica, decide non solo la lingua ma anche il contenuto di manuali didattici siano essi rivolti a bambini siano essi rivolti ad adulti o propone risibili rivoluzioni lessicali come quella di chi voleva sostituire history con herstory in virtù di una sgrammaticata parità di genere. Il political correctness neopuritano in buona sostanza recepisce il termine “discriminazione” solo nel suo significato di “restringimento dei diritti” e ne ignora l’origine etimologica nel suo senso di “discernimento” e capacità di distinguere.

La logica binaria del political correctness sì e political correctness no senza distinzioni di sorta, fa però comodo a tutti perché attribuisce alle due fazioni un’immensa quantità di potere e di vantaggi che scemerebbero paurosamente se nel gioco intervenisse un terzo incomodo. Gli oltranzisti della correttezza sarebbero costretti a limitare il loro campo di intervento e i reazionari non avrebbero più buon gioco ad attaccare le mille derive della correttezza. Quindi, paradossalmente, gli uni supportano gli altri dipendendo dagli altri la ricchezza del proprio potere. D’altronde le due parti possono intendersi perfettamente fra loro avendo in comune quella matrice neopuritana, integralista e di destra cui si accennava prima. Le stesse forze più retrograde della nostra società si avvalgono dei principi libertari del political correctness per avvantaggiarsi nei propri interessi: perché non possiamo fare il saluto fascista in pubblico? Perché “discriminare” una casa editrice chiaramente di orientamento nazista che non dovrebbe partecipare a una Fiera del Libro? Perché un negazionista dell’olocausto ebraico non può esprimere la sua opinione?
La spiegazione della totale mancanza di reazione liberal alla deriva neopuritana può essere allora questa: la diffusione dei messaggi pubblici ha perlopiù carattere commerciale o elettoralistico. I messaggi insomma “si vendono”, siano essi film, libri, pubblicità, comizi o opere teatrali. Alle spalle di ciascun messaggio c’è qualcuno che paga e qualcuno che incassa: l’obiettivo di ciascun messaggio è il profitto.

Quale venditore di detersivi rinuncerebbe anche solo a una fetta del suo mercato solo perché nella pubblicità del suo prodotto compare una donna in cucina? Se volete un uomo davanti al lavandino metteremo un uomo: questo non cambierà certo la realtà delle cose per cui i lavori domestici sono perlopiù svolti da donne. Conosciamo bene la teoria marxiana della struttura e della sovrastruttura. Ma il nostro interesse è vendere, non cambiare la società e tantomeno cambiare la struttura. Che il detersivo sia di buona o cattiva qualità passa comunque in second’ordine: l’algoritmo del political correctness è rispettato con piccoli accomodamenti sovrastrutturali.
Quale produttore cinematografico rischierebbe una campagna di opinione pubblica in rivolta perché nel film una certa minoranza etnica potrebbe essere considerata in modo negativo? Se nel film c’è un portoricano cattivo la sua presenza deve essere controbilanciata dalla presenza di un portoricano buono; se una prostituta parla con accento romagnolo inseriamo nella storia una suora di Ferrara; se un mafioso italoamericano parla siciliano anche il capo della polizia dovrà essere originario di Corleone.
Più antica è la censura morale sui manuali scolastici per adolescenti: a giudicare dalle antologie scolastiche parrebbe che le novelle di Boccaccio parlino tutte di zuzzurelloni in vena di scherzi, di preti un po’ rozzi o ingenui o di mogli infelici costrette dal marito a mangiare il cuore dell’amante. Oggi, al vecchio moralismo scolastico, si aggiunge il terrore per le associazioni di genitori che denuncerebbero senza pietà un insegnante che turbasse l’animo dei fanciulli (peraltro avvezzi alla navigazione su youporn) con storie di monaci anziani e grassi che fanno sesso facendosi comodamente cavalcare da pulzelle giovani e agili.
Perché dunque produttori, cineasti, editori, personaggi dello spettacolo, commedianti dovrebbero rischiare il loro profitto per piccole o grandi trasgressioni al protocollo che potrebbero danneggiare in modo sostanzioso il loro guadagno? E’ già abbastanza difficile gestire i contratti di lavoro, rispettare le leggi fiscali, osservare le mille norme sulla sicurezza del lavoro, vedersela coi sindacati, tenere il bilancio corretto: per evitare inutili rogne relative poi a innocue questioni sovrastrutturali ben venga l’uomo al lavandino, la suora di Ferrara e il pasto cannibalico. Maiora premunt!

Nello stesso tempo gli autori, i creativi, i pubblicitari, gli sceneggiatori, i didatti, i romanzieri e così via, tanto più se giovani o non ancora affermati, perché mai dovrebbero rinunciare al loro salario per proporre ai datori di lavoro un prodotto che provocherebbe reazioni furibonde dei più fanatici sostenitori del political correctness estremista? Basta non alludere allo stereotipo, non provocare col paradosso o l’ironia, non parlare di qualche argomento scomodo, non giocare col sentimento del contrario e tutto sarà molto, ma molto, più facile. Si chiama “autocensura” ed è diffusa oggi molto più di ieri. Il liberal attaccato dai censori neopuritani si troverebbe fra l’altro a essere difeso dai reazionari conservatori anti-political correctness e rifiutando tale compagnia si troverebbe inevitabilmente solo.

I cedimenti al political correctness neopuritano sono ormai accettati in modo generalizzato forse più per pigrizia che per scelta, perché nel ribellarsi si scoprirebbe che il gioco non vale la candela. E progressivamente la realtà del messaggio pubblico, e cosa più grave quello dell’educazione scolastica ed accademica, si omogeneizza come una minestrina per bambini senza denti, creando, piano piano, generazioni di persone incapaci di guardare criticamente alla realtà: incapaci di masticarla.